28 ottobre 2013

Plauto il re delle risate

Tito Maccio Plauto è nato a Sarsina, tra il 255 e il 250 a.C. ed è morto a Roma nel 184 a.C.

Vissuto tra il 3° e il 2° secolo a.C., il commediografo Plauto è uno dei primi e più importanti autori della letteratura latina. Egli prese a modello le opere di autori greci, adattandole però al diverso carattere del pubblico romano e creando una comicità travolgente, vivace e fantasiosa che ha ispirato anche molti scrittori moderni.

Plauto iniziò la sua carriera a Roma come attore, ma incominciò a scrivere commedie ed ebbe molto successo tra il pubblico romano.

Plauto prese spunto dagli autori della commedia nuova, sviluppatasi in Grecia nel terzo secolo a.C., e scrisse palliate (commedie che si svolgono in Grecia) e togate (commedie che si svolgono a Roma). Si ispira anche al genere comico dell’atellana, un tipo di commedia farsesca molto diffusa nell’Italia meridionale, basata su una trama piena di equivoci, incidenti, litigi e battute volgari. Il nome stesso di Plauto, Maccio, deriva probabilmente da Macco, uno dei personaggi ricorrenti nell’atellana visto che uno dei dati incerti della vita di Plauto è proprio il nome.

Nelle commedie plautine si presentano spesso caratteristiche ricorrenti. Ci sono personaggi come il giovane innamorato, il padre severo, a volte sposato con una matrona litigiosa; la prostituta avida, il soldato fanfarone, lo schiavo astuto e quello sciocco, il lenone (intermediario di incontri) e la mezzana, avidi sfruttatori della prostituzione, il parassita ingordo; il cuoco orgoglioso e altri ancora. La trama spesso parla di un giovane ragazzo che si innamora di una ragazza (a volte una prostituta) e deve combattere contro la volontà del padre, o del padrone, che è contrario al loro matrimonio. Alla fine riesce ad ingannarlo con l'aiuto di un suo schiavo e sposa l'amata.

Nonostante Plauto prenda come esempio la commedia greca, inserisce nuovi elementi e contribuisce così allo sviluppo della commedia. Per esempio nelle sue commedie lo schiavo ha un importante ruolo visto che aiuta il suo padrone a superare gli ostacoli. Con le sue battute e i suoi inganni vivacizza la commedia e diverte il pubblico. Con il fine di suscitare risate tra il pubblico, Plauto usa un linguaggio molto fantasioso e pieno di doppi sensi. Questo lo distingue molto dagli altri commediografi.

Plauto aveva un così grande successo che circolavano centotrenta commedie sotto il suo nome, di queste probabilmente ventuno sono autentiche. Nonostante nell'antichità le sue opere erano molto apprezzate, nel Medioevo erano quasi sconosciute. Ma a partire dal Rinascimento fino ad oggi furono molto apprezzate ed ispirarono drammaturghi come Shakespeare. 
Tra le commedie più importanti da lui composte, ancora oggi rappresentate, si ricordano Anfitrione, La commedia degli asini, L'Aulularia, Il soldato fanfarone e Pseudolo.
L'Aulularia (o anche Commedia della pentola) parla di Euclione che trova una pentola piena d'oro lasciatagli da un'antenato e che ne diventa geloso possessore. Tiene nascosta la pentola e vive nella continua ansia che gli venga rubata. Megadoro, vicino di casa di Euclione, visto che si trova già in età avanzata e non ha ancora moglie, decide di sposare la figlia di Euclione, Fedra. Dopo alcune perplessità Euclione acconsente e dice che le nozze devono essere celebrate subito. Euclione al pensiero che uno degl'invitati possa rubargli la pentola si spaventa e la va a nascondere nel tempio della Bona Fides. Strobilo, schiavo di Liconide, nipote di Megadoro, spia Euclione e quando lascia il tempio fa per rubare la pentola ma viene scoperto dal sospettoso Euclione. Quest'ultimo scaccia lo schiavo e nasconde la pentola nel bosco Silvano ma Strobilo lo segue e infine riesce a rubare la pentola. Intanto Liconide, che aveva messo incinta Fedra nove mesi prima e se n'era innamorato, confessa la sua colpa e dichiara il suo amore per Fedra a Euclione e gli chiede di sposarla.
Qui il manoscritto si interrompe, ma dai frammenti si può indovinare la fine: Strobilo è affrancato e Liconide sposa Fedra, a cui Megadoro ha rinunziato. La pentola è la dote di Fedra e finalmente Euclione può vivere senza l'angoscia di essere derubato.


Scena di una commedia di Plauto (Aulularia)


Post fatto da:
Federica Amico e Miriam Unland

Fonti:
http://it.wikipedia.org/wiki/Tito_Maccio_Plauto 
Concetto Marchesi,"Storia della letteratura latina", Principato Editore, 1982, pp.57-58

I PENATI

 
I Penati erano spiriti protettori che custodivano le ricchezze e le provviste delle famiglie.

I Penati nella vita domestica. - I Penati (dal lat. penus "commestibili di riserva", poi "ripostiglio delle provviste") erano le divinità che proteggevano la famiglia. Quando i romani conducevano una vita umile, i Penati erano venerati insieme a Vesta e ai Lari. Quando le case romane si ingrandirono ed ebbero più stanze, l'atrio e la cucina rimasero legati a queste divinità.
Il culto che si presta ai Penati è simile a quello prestato ai Lari.
Ad ogni pasto viene loro fatta un'offerta di sale, l'elemento che purifica e conserva, e di farro, il primo cereale che i Romani abbiano coltivato. I Penati non sono necessariamente concepiti come maschili.  Alcune iscrizioni infatti sono dedicate "deis deabus Penatibus familiaribus" (agli dei e alle dee Penati familiari) (Corp. Inscr. Lat., V, 514). Il culto dei Penati fu molto importante nella religione privata dei Romani perciò esso è rimasto immutato fino alla fine del paganesimo.

I Penati pubblici del popolo romano. - Di fianco ai Penati privati si costituirono i Penati che avevano il compito di tutelare la vita dello stato.
I Penati pubblici furono venerati nel tempio di Vesta. In seguito ebbero sulla Velia un tempio proprio di cui non è rimasta traccia, ma che doveva trovarsi sull'area dell'attuale chiesa di S. Maria Nuova. Esso conteneva le immagini di due divinità giovanili, a somiglianza dei Dioscuri, sedute, vestite alla militare e armate di lancia: figurazione richiamata anche dalla moneta di Antio Restione che ha due teste giovanili con sotto la scritta "dei Penates". Questo tempio nel 167 a. C. fu colpito dal fulmine e nel 165 le sue porte si aprirono da sole, di notte; Augusto lo restaurò. Ai Penati pubblici vennero associate le divinità protettrici di Roma.

Il culto dei Penati e la leggenda di Enea. - La connessione tra la leggenda di Enea e le origini della gente romana è collegata anche alla storia dei Penati che vengono trasportati da Enea da Troia a Lavinio e poi ad Alba Longa e a Roma e rappresentano la continuità della stirpe di Enea e la continuazione a Roma del fato di Ilio.
Enea infatti avrebbe preso con sé i Penati di Troia sotto consiglio di Ettore; i Penati gli sarebbero apparsi in sogno ammonendolo sulla rotta da tenere verso i lidi d'Italia.
L'importanza dei Penati di Lavinio oscurò quella dei Penati di Alba Longa che pure era la città madre della confederazione latina e quella dalla quale, dopo la distruzione, i Penati sarebbero stati trasportati a Roma.

La provenienza frigia dei Romani è stata molto probabilmente la causa che ha collegato i Penati di Troia in cammino verso Roma ai Cabiri di Samotracia, il cui culto ebbe diffusione a Roma all'alba dell'impero. La relazione fra i due gruppi di divinità è confermata da Tertulliano il quale afferma che nel mezzo del circo massimo v'erano tre colonne con immagini di Sessia (dea della semente), Messia (dea delle messi) e Tutilina (dea che tutela la frutta); e che davanti a queste immagini v'erano tre are dedicate rispettivamente magnis (ai grandi), potentibus (ai potenti), valentibus (ai valenti), epiteti, appunto, dei Cabiri di Samotracia, i quali sono così associati a divinità che hanno relazione con le provviste del penus.
La teologia astrale della fine del paganesimo definì i Penati come quelli "per quos penitos spiramus, per quos habemus corpus, per quos rationem animi possidemus" (per cui respiriamo profondamente, per cui abbiamo il corpo, per cui possediamo il pensiero della mente). 
Definì anche i tre numi della triade capitolina, considerati come Penati, Minerva, Giove, Giunone  rispettivamente l'etere sommo, medio e infimo.

Elaborato da: Alice Argentieri e Edna Basilio
Fonte: Penati in "Enciclopedia Italiana" - Treccani

Marc Bloch " l'Orco della Fiaba "


«Il buon storico somiglia all'orco della fiaba : là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda. » 
(Apologia della storia)

Marc Bloch nacque a Lione il 6 luglio 1886, studiò all’ Ecole Normale Superieure per poi proseguire gli studi a Berlino e a Lipsia. Durante la grande guerra fu un ufficiale di fanteria e terminò il conflitto come capitano. Dopo la guerra, più precisamente nel 1919, insegnò come professore di storia medievale all’università di Strasburgo. Studiò soprattutto il feudalesimo e sviluppò una ricerca sulla storia della mentalità del Medioevo, che si concluse con la pubblicazione de “I Re Taumaturghi” (Les Rois Thaumaturges), uno dei suoi più importanti libri.
In quest'opera Bloch indaga le origini dei comportamenti collettivi raccontando la storia dei re taumaturghi, che secondo la leggenda avevano il potere divino di guarire la scrofola, malattia molto diffusa nel Medioevo. I suoi studi erano per la maggior parte centrati sulla storia della mentalità e quindi su quello che gli uomini appartenenti a diverse classi sociali tendevano a pensare. Nel 1929 fondò insieme al collega Lucien Febvre la rivista di studi storiografici “Annales d’Histoire Economique et Sociale” . Nel 1936 insegnò storia economica all'università parigina Sorbonne. Ma con l’inizio della seconda guerra mondiale abbandonò l’insegnamento per far parte della Resistenza, dando il proprio contributo come capitano addetto ai rifornimenti. Durante l’occupazione della Francia da parte dei tedeschi  venne consegnato alla Gestapo, che lo tenne prigioniero per un breve periodo e il 16 giugno 1944 lo fucilò. Marc Bloch ha lasciato una grande influenza in campo storiografico anche grazie alla sua opera incompleta intitolata “Apologia della Storia o Mestiere di Storico”.

Apologia significa “discorso scritto in difesa di sé, di altri o di una dottrina di fede”. Bloch  difende il mestiere dello storico e affronta i problemi legati alla sua utilità.
Alla domanda "a che serve la storia" Marc Bloch risponde sostenendo che la storiografia analizza "il passato in funzione del presente e il presente in funzione del passato". Infatti scrive che lo storico è più di uno studioso dedito a ricerche del passato che non hanno alcuna utilità nella società contemporanea, egli recupera la "memoria collettiva", la quale diventa un punto di riflessione importante per ogni società, che grazie a  una migliore conoscenza del passato potrà meglio risolvere i problemi del presente.
Egli sostiene quindi che lo studio del nostro passato possa essere utile a capire e a migliorare l’attualità, ed è convinto che sia più importante ricostruire un contesto storico anziché conoscere alla perfezione date, battaglie e protagonisti. Per fare ciò non si limita a studiare soltanto la storiografia ma si serve anche di altre discipline quali la sociologia, la psicologia e l'economia.

«Papà, spiegami allora a cosa serve la storia". Così un giovinetto, che mi è molto caro, interrogava, qualche anno fa, uno storico. Del libro che si leggerà, vorrei poter dire che è la mia risposta »


Post elaborato da Elisa Albericci e Alessia Accornero






Informazioni tratte da:

Il Dio Luperco



Il Dio Luperco
Luperco è un antico dio latino, era considerato una divinità pastorale invocata a protezione della fertilità ed era identificato con il lupo sacro a Marte. Il santuario a lui dedicato era il Lupercale, che si trovava sulle pendici nord-occidentali del Palatino. In questo luogo Faustolo avrebbe trovato i gemelli Romolo e Remo allattati da una lupa. I suoi sacerdoti si chiamavano anch’essi Luperci ed erano divisi in due sodalizi: i Luperci Quintili e i Luperci Fabiani. I Fabiani provengono dalla gente dei Fabi, antichissima gente patrizia romana che faceva risalire a Ercole le sue origini. I 12 sacerdoti preposti al culto del dio Luperco appartennero sempre ai Fabî e ai Quintilî. Dal 485 al 479a. C. è registrato nei fasti per sette anni di seguito un console Fabio; poi, per 11 anni, il nome dei Fabi scompare dai fasti; nel 477 nella battaglia del Cremera sarebbe stata distrutta tutta la gente, ad eccezione di un fanciullo,Q. Fabio Vibulano. Rulliano, l'eroe delle guerre sannitiche, è il primo grande Fabio dei tempi storici. Dal suo stesso ramo discese Q. Fabio Massimo, il Temporeggiatore. In età imperiale i Fabi occuparono ancora posti di rilievo nella vita politica. La gens Quintilia era una famiglia patrizia Romana, risalente al primo periodo della storia romana. Nonostante la sua grande antichità non ha mai avuto una grande importanza storica anche se tra i suoi componenti erano presenti numerosi pretori e magistrati. Secondo la leggenda, quando Romolo e Remo dovettero decidere il capo della nuova città i Quintili si schierarono con Romolo e i Fabi con Remo. In onore di Luperco il 15 febbraio si celebravano le Feste lupercali di purificazione: prima si immolavano capri e un cane, poi due giovani Luperci, con la fronte bagnata del sangue dei capri e vestiti delle pelli degli animali sacrificati, correvano attorno al Palatino colpendo le donne con strisce della stessa pelle.
IL LUPERCALE
Nel 2007 l'archeologa italiana Irene Iacopi annunciò che aveva probabilmente trovato la
Il Lupercale
leggendaria grotta sotto le rovine del palazzo di Augusto sul Palatino. Gli archeologi hanno rinvenuto questa cavità ad una profondità di 15 metri durante i lavori di restauro del palazzo. La volta della grotta è adornata di mosaici colorati e di conchiglie. Il centro della volta è decorato con un'aquila bianca, che è il simbolo del principato di Augusto. Gli archeologi sono ancora alla ricerca dell'entrata della grotta, sotto il Palatino, nei pressi del palazzo di Augusto.La grotta, situata presso le mura del palazzo di Aurelio, tra il Tempio di Apollo Palatino e la Basilica di Sant'Anastasia al Palatino, all'altezza del Circo Massimo, si trova a 16 metri di profondità, e finora è stata solo esplorata da una telecamera sonda, la quale ha mostrato una struttura di 9 metri di altezza per 7,5 di diametro, con le pareti decorate a mosaici e al centro l'aquila augustea. Alcuni colleghi dell'archeologa hanno condiviso l'identificazione di questa grotta con il lupercale, altri invece hanno espresso parere diverso.



Link: Dio Luperco; Lupercale                                Alberto Fiorentino    Mattia Passarelli

Taranto, le origini

 Taranto fu fondata verso la metà dell'ottavo secolo a.C. da coloni spartani, provenienti da un ceto sociale basso: la loro migrazione infatti, fu causata da una serie di problematiche demografico-sociali. La colonia potè affermarsi solo dopo una lunga serie di battaglie: nel 473 a.C. i tarentini furono sconfitti dagli Iapigi e questa sconfitta provocò il progressivo allontanamento dalla monarchia e l'avvicinamento alla democrazia. Una volta ripresisi, i tarentini riuscirono a esercitare supremazia sulla vicina Metaponto e poi sulla Siritide, fondata da Pericle sulle rovine dell'antica Sibari. Durante il quarto secolo a.C. Taranto aderì alla Lega Italica, allo scopo di arginare delle popolazioni indigene come Messapi, Lucani e Bruzi. Le difese di Taranto però risultarono insufficienti e la città fu costretta a chiedere aiuto ad Archidamo di Sparta, Alessandro Di Epiro e del principe spartano Cleonimo. Nel frattempo l'intervento di Roma a sostegno dei Lucani e la rottura di diversi accordi causò la "guerra tarantina", che vide l'intervento a favore dei tarentini del re 
d'Epiro, Pirro. La guerra vide Taranto avere la peggio e finire sotto il controllo 
dell'alleanza romana. La città partecipò assieme a Roma alla prima guerra punica, ma nella seconda si alleò con il cartaginese Annibale (212 a.C.). Proprio a causa di 
quest'ultima alleanza, Taranto venne punita tre anni dopo da Fabio Massimo, che la riconquistò, la saccheggiò e sterminò o vendette come schiavi i suoi abitanti. Nel 125 a.C. diventò una colonia romana e il suo nome venne cambiato in Neptunia. Nel 90 a.C. venne eretta a  Municipium. In questo periodo Taranto si trasformò da una metropoli della Magna Grecia in una tipica città latina. 


Le colonne doriche di Taranto
                                               
 


Archeologia

L’acropoli della città antica sorgeva sulla penisoletta che chiude il porto. Di fronte all’estremità ovest dell’acropoli è stato rinvenuto un importante insediamento che conferma una massiccia presenza micenea nella zona. Dei monumenti dell’acropoli si riconoscono le tracce di due templi dorici. L’impianto urbano, fortemente condizionato dalla conformazione del luogo, doveva essere basato su un’arteria principale. Dalla metà del 6° sec. a.C. l’acropoli fu circondata da fortificazioni. Oltre all’agorà le fonti ricordano il mercato della carne e quello delle stoffe, gli impianti dei vasai (dei quali  sono state rinvenute le fornaci), officine per la lavorazione della pietra e dei metalli. Lungo la fascia costiera si trovavano le strutture portuali, con i relativi impianti artigianali e commerciali. Al 4° sec. si datano i resti di un tempio ionico, scoperti presso l’agorà. Lo splendore della città in questo periodo è documentato dai corredi più ricchi, comprendenti oreficerie, e dalla ripresa della costruzione di tombe a camera, caratterizzate da alcune decorazioni scultoree;  resti ritrovati, testimoniano la presenza di veri e propri rituali funerari: le sepolture venivano effettuate per inumazione (dal latino "in" e "humare", sotterrare), cioè seppellendo i defunti in posizione fetale , ma anche mediante cremazione, ossia bruciando i corpi dei defunti e conservandone le ceneri in un'urna. All'interno delle tombe veniva deposto il corredo funerario, solitamente legato alla vita quotidiana dell'individuo, pertanto le stesse venivano corredate con utensili, vivande e gioielli, nel tentativo di imitare la casa del defunto.
Un cenno a parte meritano le monete della zecca tarantina, la più attiva di tutta la Magna Grecia, che coniò soprattutto in argento ma spesso anche in oro. Le monete più belle e sfarzose risalgono all' età di Archita, ritenuto il periodo più fiorente di Taranto.

La tomba degli Atleti
   


     Miti e Leggende

 Il mito di Falanto

Sul lungomare del borgo antico della città, è presente un enorme tabellone ceramico, raffigurante la leggenda dell' impresa coloniale greca e la successiva nascita di Taranto. L'opera è ispirata alla leggenda dell'eroe spartano Falanto ed al responso dell'Oracolo di Delfi da lui interpellato, il quale sentenziò: «Quando vedrai piovere dal ciel sereno, conquisterai territorio e città.». Falanto, vedendo piangere sua moglie Ethra (che vuol dire cielo sereno), ritenne che l'oracolo si fosse avverato e si accinse a fondare la sua città a cui diede il nome di Saturo, ancora esistente a pochi chilometri dalla città.

FONTI:



Elia Liotta                                                                                    Federico D'Ettorre



La Dea Vesta

VESTA
Vesta era una delle Divinità dei Romani e Latini, a cui veniva associato il culto del focolare domestico e pubblico. Il nome della Dea viene spesso collegato a quello della divinità greca Estia (῾Εστία, Ƒεστία), ma la venerazione attribuitale risale probabilmente a popolazioni indigene molto antiche. Il suo culto privato, cioè quello praticato all'interno delle singole famiglie, non era molto diffuso, e fu presto superato da quello dei Penati, dei Lari e del Genio. Al contrario, il culto pubblico ebbe grande importanza e sviluppo: esso aveva luogo presso il focolare dello Stato, nella rotonda “aedes Vestae” (tempio di Vesta) del Foro, dove la Dea era venerata come “Vesta publica populi Romani”. Erano le vergini sacerdotesse Vestali che vegliavano sul tempio. Le loro cerimonie rituali erano molto antiche; le feste (Vestalia) duravano dal 7 al 15 giugno, culminando nel giorno 9. Come patrona del focolare dello Stato, Vesta era invocata in caso di pubbliche calamità e si attribuiva grande efficacia alle preghiere delle vestali. Augusto, nel 12 a.C., a seguito della sua nomina a Pontefice Massimo, fondò presso la sua abitazione, sul Palatino, un nuovo tempio di Vesta.
L’ordine delle vestali (Vestales o Virgines Vestales) era molto antico. Il loro numero originario è incerto: in età storica erano sei. Esse venivano scelte dal Pontefice Massimo all'interno di un gruppo di 20 bambine di età compresa fra i 6 e i 10 anni appartenenti a famiglie patrizie, ed erano tenute ad esercitare il loro sacerdozio per 30 anni. Le vestali godevano di onori e privilegi ignoti alle comuni donne romane: erano le uniche che potevano fare testamento, potevano testimoniare senza giuramento e avevano il diritto di chiedere la grazia per il condannato, a patto che quest’ultimo non fosse un loro conoscente. Veniva loro imposto di conservare la verginità per tutta la durata del loro sacerdozio. Nel periodo repubblicano le vestali facevano parte del collegio dei pontefici. Il Pontefice esercitava una forma di “patria potestas”, nella quale non interferivano di regola né il popolo né i magistrati. Il loro compito più importante era quello di non far spegnere il fuoco sacro della città. Nel caso questo si fosse estinto o la vestale avesse perso la verginità, quest'ultima poteva essere fatta seppellire viva dal pontefice. Il collegio delle vestali sopravvisse insieme al culto di Vesta fino alla fine del paganesimo.
Nell'arte romana Vesta appare in rilievi e statue, seduta in trono e velata. Dall'Atrium Vestae, area aperta situata presso il tempio di Vesta, provengono varie statue di vestali, rappresentate costantemente con tunica cinta e il capo adorno di vittae (nastri) e dell’infula (benda di lana bianca con cui si cingeva il capo dei sacerdoti, delle vestali e delle vittime sacrificali). Avevano i capelli intrecciati “crines” e il seno era coperto dal corto velo,“suffibulum”, che arrivava poco sotto le spalle, agganciato sul davanti.


Daddi Alessia - Rampazzo Silvia

IL RATTO DELLE SABINE



Lo storico Tito Livio, nella sua monumentale opera riguardante la storia di Roma, racconta con l’episodio celebre del Ratto delle Sabine la fusione, avvenuta in età assai antica, dell’elemento romano con quello sabino.
Romolo, dopo aver fondato Roma, si rivolge alle popolazioni vicine per stringere alleanze e ottenere delle donne con cui procreare e popolare la nuova città. Al rifiuto dei vicini risponde con l'astuzia invitando alle celebrazioni per il dio Conso le popolazioni vicine e rapendo le donne sabine intervenute alla festa. Raccontano Livio e Plutarco, che i Sabini, incuriositi dalla nuova città e vittime di eccessiva fiducia, si presentarono al completo. Quando tutti erano concentrati sui giochi, ad un preciso segnale, la gioventù romana si mise a correre all'impazzata per rapire le ragazze. Alcuni raccontano che furono rapite solo trenta fanciulle, Valerio Anziate cinquecentoventisette, Giuba II seicentottantatré, mentre Plutarco stima non fossero meno di ottocento. Una parte finiva nelle mani del primo che le catturava; altre venivano trascinate dai plebei alle case dei senatori più nobili. Si racconta che una di esse, molto più carina di tutte le altre, fu rapita dal gruppo di un certo Talasio e, poiché in molti cercavano di sapere a chi mai la stessero portando, gridarono più volte che la portavano a Talasio perché nessuno le mettesse le mani addosso. Da quell'episodio deriva l'antico grido nuziale romano. I genitori se ne andarono affranti dal dolore accusando i romani di aver violato il patto di ospitalità e invocando il dio Conso, per il quale erano state indette le celebrazioni. Ma Romolo stesso informò le giovani che ciò era avvenuto per l’arroganza dei loro padri che non avevano permesso di contrarre matrimoni. Ciò nonostante le donne sarebbero diventate loro spose e avrebbero condiviso tutti i beni, la patria, ma soprattutto i figli, cosa più cara agli esseri umani. A favore di Romolo depose il fatto che non venne rapita nessuna donna maritata, se si esclude la sola Ersilia, la quale aveva una figlia in tenera età. Seguì una guerra non dichiarata mossa dai Sabini. La leggenda narra che essi corruppero Tarpea, la figlia del guardiano del Campidoglio, con splendidi bracciali d'oro e penetrarono a Roma. Una volta entrati nella città, invece di darle i gioielli promessi seppellirono la ragazza sotto le armi. Durante l'aspra guerra tra i due popoli, le donne si gettarono tra le spade e le frecce pregando i padri sabini e i mariti romani di porre fine alla battaglia. Il gesto intenerì i soldati e i comandanti, i quali si fecero avanti per stipulare patti d'alleanza. Così i due popoli daranno origine ad un'unica grande civiltà unendo i regni e trasportando il comando direttamente a Roma. Il ratto fu spiegato da Plutarco non tanto come un gesto di superbia, ma piuttosto come atto di necessità, al fine di mescolare i due popoli.

Post di Selene Chiorlin e Michela Vernò

Atena e Minerva nella mitologia greco-romana.

MINERVA
Minerva era la divinità romana, figlia di Giove e di Metide, protettrice dei mestieri, dell'ingegno, della guerra e delle arti, nonchè inventrice della musica. Ella faceva parte della Triade Capitolina, un gruppo di divinità superiori costituita anche da Giunone e Giove che identificava la grandezza di Roma. Il suo nome è probabilmente di origine etrusca e forse deriva da una divinità italica della Luna "Meneswa" (colei che misura). Inoltre, lo studioso Carl Becker notò che nel suo nome compariva la radice "men-", la quale in greco antico indicava parole inerenti alla memoria e, più in generale, nella maggior parte delle lingue indoeuropee, inerenti alla mente.
Il suo tempio più antico è sul colle Aventino. Esso era il centro delle corporazioni di mestiere, in particolare, dalla fine del III secolo a.C., di quella di scrittori e attori. Un altro tempio risalente al IV secolo, sul colle Esquilino, è dedicato a Minerva medica, protettrice della medicina.
A lei è dedicata una festività detta "Quinquatria" che i Romani celebrano attorno alla metà di Marzo. Ovidio afferma che i "Quinquatria" duravano cinque giorni (dal 19 Marzo al 23), da cui il nome. È però possibile che solo il primo giorno fosse il Quinquatria vero e proprio, e che i successivi quattro fossero stati aggiunti successivamente, probabilmente all'epoca di Gaio Giulio Cesare, con lo scopo di divertire il popolo: infatti, mentre il primo giorno era proibito versare sangue, nei successivi quattro venivano organizzati giochi gladiatorii. Questa interpretazione è avvalorata dal fatto che nei calendari più antichi solo un giorno è dedicato a questa festività.
L'ellenizzazione della figura di Minerva e la sua interpretazione come Pallade Atena  nei secoli III e II a.C. fecero sì che progressivamente ella ne assimilasse  i diversi miti e tutte le prerogative, fra cui quella di protettrice della città (custos urbis) e di guida intelligente delle azioni di guerra.

ATENA
Atena era la divinità greca, figlia di Zeus e della sua prima moglie Metide, dea della saggezza, della sapienza, della tessitura, dell'artigianato e delle più nobili arti della guerra, nonchè sacra protettrice della città di Atene. Ella era già nota ai micenei, poichè proprio il suo nome (atana potinja = pòtnia Athène <<A. Signora>>) sembra attestato già da una tavoletta di Cnosso. A lei erano associati animali come il serpente, la civetta e altri uccelli. Era una dea molto amata e venerata dal popolo greco; essa aiutava solo chi combatteva con l'astuzia (Metis) propria di personaggi come Odisseo. 
L'inno ad Afrodite <<omerico>> la dichiara inventrice del carro da guerra e l'iconografia la raffigura per lo più con l' "egida", uno scudo ricavato, secondo una tradizione, dalla pelle del gigante Pallante, secondo un'altra tradizione da quella di una capra mostruosa e adornato dei serpenti del capo di una Gorgone.
Ad Atene erano inoltre attribuite  l'invenzione dei più vari strumenti  artigianali (il tornio del vasaio, la squadra del carpentiere, la spola per filare, l'imbrigliatura dei cavalli) e la costruzione della prima nave. Essa era quindi la protettrice non solo dei mestieri femminili, ma anche di quelli maschili: ad esempio, ad Atene si celebravano in suo onore le Calcee, le <<feste dei fabbri>> (da chalkèus <<fabbro>>). 
Era conosciuta come Athena Parthenos (la vergine Atena); da questo appellativo deriva il nome del più famoso tempio a lei dedicato; il Partenone sull'acropoli di Atene.


http://it.wikipedia.org/wiki/Atena
Dizionario civiltà classica edizione Rizzoli


Elaborato da Linda Rimoldi e Sara Colognese.

Giove: il capo degli dei dell'Olimpo


GIOVE: IL CAPO DEGLI DEI DELL’OLIMPO
Giove è la divinità più importante a Roma (in Grecia corrisponde a Zeus). Secondo la mitologia è il dio degli elementi atmosferici, venerato più per le sue avventure d'amore che per il simbolo della giustizia che rappresenta, alla fine del mondo antico Giove sarà assimilato al Dio cristiano.

Lo Zeus dei Greci

Crono, con l'aiuto della madre Gea (la Terra), ha spodestato il padre Urano (il Cielo) nel dominio del mondo. Teme che un suo figlio possa fare altrettanto con lui: e così divora tutti i nati che la sua sposa Rea partorisce. Rea, però, in attesa di un nuovo figlio, ordisce un inganno: nasconde il neonato Zeus a Creta e fa ingoiare a Crono un masso al posto di Zeus. Il giovane dio, una volta cresciuto, rovescia il potere del padre e gli fa vomitare tutti i figli che aveva divorato. Dopo altre lotte cosmiche che coinvolgono prima i Titani e poi i Giganti, Zeus, instaura finalmente un ordine divino stabile e incarica Prometeo di creare l'uomo dall'argilla.
Le molte vicende del mito greco in cui compare Zeus, riguardano soprattutto storie d'amore con dee o donne mortali e sono all'origine della nascita di eroi, semidei o vere e proprie divinità:

·         Da Leda, che Zeus seduce trasformato in cigno, nascono Castore, Polluce ed Elena;
·         da Danae, che il dio riesce a fecondare in forma di pioggia d'oro, nasce Perseo;
·         da Alcmena, ingannata perché Zeus le appare come sosia del legittimo marito Anfitrione, nasce Eracle;
·         da Semele, Dioniso;
·         dalla dea Maia nasce Ermes;
·         da Latona Apollo e Artemide;
·         da Mnemosine ‒ la dea della memoria ‒ le Muse;

·         da Demetra, Persefone;
Genera direttamente dalla sua testa Atena, dopo aver ingoiato la titanide Meti. La sua sposa divina è Era, che da lui ha due figli: Ares e, probabilmente, anche Efesto; numerosi sono gli aneddoti che vedono la dea                                                                   coinvolta in vicende di gelosia nei confronti di Zeus.
Il suo culto in Grecia era incentrato in alcuni famosi santuari, sedi anche di importanti oracoli, in particolare quelli di Dodona e di Olimpia. A lui erano dedicati i giochi olimpici.
Il suo oggetto identificativo è il fulmine, e il suo principale animale sacro è l'aquila che è diventato uno dei simboli più comuni dell'esercito romano. I due emblemi erano spesso combinati per rappresentare il dio come aquila che tiene tra gli artigli un fulmine, spesso rappresentato sulle monete greche e romane. Il suo albero sacro era la quercia. I simboli di Zeus, dio del potere regale e dell'ordine, sono il fulmine e la bilancia d'oro su cui pesa il destino dei mortali. Molti autori greci ed alcuni filosofi, faranno di Zeus una divinità quasi assoluta, preparando poi il passaggio al monoteismo cristiano.



Scontro tra Dei e Titani

Nella mitologia greca viene detta titanomachia la lotta condotta da Zeus e i suoi fratelli contro i Titani. Nella titanomachia si affrontarono due fazioni, quella capitanata da Zeus, che vedeva tutti gli dei dell'Olimpo più i Ciclopi e gli Ecatonchiri (giganti dalle cento braccia), in guerra contro la fazione, appunto, dei Titani guidati da Crono. La Titanomachia durò 10 anni, in cui le lotte tra i due schieramenti si susseguirono di continuo.

Il mito


La titanomachia è oggetto della narrazione di
svariati poemi ciclici. Secondo la tradizione, furono proprio gli Ecatonchiri e i Ciclopi a dare una svolta alla guerra. Infatti essa durava da 10 "grandi anni" e si era giunti a uno stallo. Gea allora rivelò agli dei un segreto per conseguire la vittoria: liberare i Ciclopi, che erano stati incatenati nel Tartato da Crono, e andare a prendere i giganti Centimani, Briareo, Cotto e Gige e convincerli a unirsi alla battaglia. Zeus seguì il consiglio di Gea: liberò i Ciclopi che per gratitudine gli fabbricarono delle nuove armi da usare contro i Titani, le folgori. Rifocillò gli Ecatonchiri con nettare e ambrosia e li invitò a lottare al suo fianco contro i Titani. Anche i giganti Centimani accettarono l'invito di Zeus e Cotto diede la sua parola per tutti e tre. La guerra riprese con gli Dei schierati in cima al monte Olimpo e i Titani sulla cima dell'Otri. Ma i nuovi combattenti avevano cento mani ciascuno, con le quali presero cento pietre e le scagliarono contro i Titani. Con tale pioggia di pietre e con l'aiuto delle nuove armi donate dai Ciclopi, i Titani furono sconfitti, in seguito incatenati e fatti precipitare nel Tartaro. Gli stessi Ecatonchiri furono messi a guardia dei Titani, chiusi in una fortezza sigillata con delle porte di metallo create da Poseidone.


Giove a Roma



 Giove era ben distinto da Zeus. Era il fratello di Nettuno e Plutone. Ognuno ha presieduto uno dei tre regni dell'universo: il cielo, le acque, e gli inferi. Giove era venerato da tutti i popoli italici, in santuari importanti eretti in genere sulle cime dei monti. A Roma il più famoso era quello sito sulla cima del colle Campidoglio. Dio dell'ordine e della giustizia, era garante delle promesse e dei patti internazionali, nonché protettore del matrimonio. Il titolo più significativo con cui veniva invocato era però quello di Giove Ottimo Massimo, associato nel culto a Giunone e Minerva. Era questa la cosiddetta triade capitolina, nella tradizione romana simbolo della religiosità e del potere sancito dagli dei. Numerosi giochi e feste erano dedicati a Giove.
Con l'arrivo delle religioni orientali a Roma, Giove fu accostato e poi del tutto assimilato prima alle divinità misteriche, poi, dopo la fine del mondo classico, al Dio onnipotente cristiano.
Nel racconto della storia romana antica Giove negozia con Numa Pompilio, secondo re di Roma, per stabilire i principi della religione romana.

FONTI: Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Titanomachia), Dizionario Civiltà Classica dizionari Rizzoli, enciclopedia Treccani on-line (http://www.treccani.it/enciclopedia/giove_%28Enciclopedia-dei-ragazzi%29/)

Elaborato da:
Anna Tenti
Alessia Fiini


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