JR |
Imparare a conoscere il mondo
Nella mia vita ho incontrato persone
determinanti, fondamentali, a cominciare da mia madre Mariana, la cui
forza, dedizione assoluta ai figli, coraggio e affidabilità non sono
mai venute meno. Donna calma e rassicurante, ha sempre rivendicato e
gestito da sola il ruolo di capofamiglia con un’autorità giusta e
un intuito straordinario. Se mi comportavo male o commettevo una
sciocchezza non si faceva problemi a venire a rimproverarmi a scuola,
davanti ai miei compagni.
All’epoca, in Guadalupa, il rapporto
con l’adulto, e in generale con le persone più grandi, era
completamente diverso rispetto alla Francia. Quando sono arrivato a
Parigi restavo a bocca aperta quando sentivo i figli rispondere a
tono ai genitori. Ad Anse-Bertrand, se per strada dicevo una
parolaccia, un adulto poteva prendermi per un orecchio e dirmi: «È
questo che ti insegnano a scuola?» Qualunque adulto era autorizzato
a darmi una sculacciata, se lo riteneva opportuno per la mia
educazione, e allo stesso modo poteva chiedermi di andare a comprare
per lui dell’olio, del merluzzo o delle lenticchie. Il bambino non
era mai lasciato da solo, della sua educazione si occupavano tutti
gli adulti del villaggio. Ecco perché non si potevano dire certe
cose, o comportarsi in un determinato modo.
Avevo otto anni il giorno in cui mia
madre ci ha riuniti tutti intorno a un tavolo per spiegarci che ci
avrebbe lasciati soli per un anno: sarebbe andata a Parigi a lavorare
come donna delle pulizie, promettendo di tornare a prenderci per
ripartire tutti insieme. Se non fosse tornata non sarei mai diventato
quello che sono, e probabilmente non mi sarei più fidato della sua
parola né di quella di chiunque altro.
Per mia madre andare in Francia
significava farci crescere meglio, garantirci maggiori opportunità e
liberarsi di un lavoro massacrante. In Guadalupa tagliava la canna da
zucchero e faceva le pulizie.
• • •
Capisco le persone che si arrischiano
ad attraversare la savana, i deserti, i mari, le foreste o le
montagne per sfuggire alla fame, alla miseria e all’incertezza o
per costruire un futuro migliore.
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Il ragionamento di mia madre era lo
stesso che nel corso del XX secolo ha portato a Parigi persone
provenienti dalla Borgogna, dall’Auvergne, dalla Savoia o dalla
Bretagna, ma anche italiani, polacchi, ebrei dell’Europa orientale
e spagnoli, e poi algerini, portoghesi, vietnamiti, congolesi,
maliani, ivoriani e cinesi. Sin dai tempi dell’Homo sapiens ogni
individuo ha tentato di proteggere e migliorare la propria vita e
quella dei suoi cari. Non è forse vero che ognuno di noi sarebbe
pronto a tutto pur di riuscirci? È scritto nei «nostri geni», è
l’istinto di sopravvivenza. E allora perché emigrare per
provvedere alle necessità della propria famiglia quando si è poveri
viene considerato un reato che merita la reclusione? Anche le persone
fortunate sono colpevoli di mandare i figli nelle migliori università
anglosassoni per garantire loro un futuro migliore?
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Nel mondo, le stigmatizzazioni più violente riguardano sempre i più sfortunati, gli svantaggiati. E questo a prescindere dal colore della loro pelle o della religione che professano. I poveri fanno paura.
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Che fosse in Guadalupa o in Francia, mia madre non si è mai compianta riguardo alla propria sorte, né a parole né nel modo di comportarsi. Al contrario, quando si vestiva sembrava la first lady dell’isola, ed è così ancora oggi! Il suo entusiasmo è contagioso.
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Nel mondo, le stigmatizzazioni più violente riguardano sempre i più sfortunati, gli svantaggiati. E questo a prescindere dal colore della loro pelle o della religione che professano. I poveri fanno paura.
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Che fosse in Guadalupa o in Francia, mia madre non si è mai compianta riguardo alla propria sorte, né a parole né nel modo di comportarsi. Al contrario, quando si vestiva sembrava la first lady dell’isola, ed è così ancora oggi! Il suo entusiasmo è contagioso.
Ricordo il modo in cui ci descriveva
Parigi e la vita laggiù: un paradiso nel quale ci saremmo potuti
realizzare. Il giorno della partenza abbiamo indossato i vestiti
migliori e detto arrivederci alla famiglia, e io ho salutato senza
tristezza i miei amici Marik, Olivier e Relique. Il viaggio in aereo
è stato una festa e dall’arrivo a Orly un continuo stupore,
davanti al tapis roulant dell’aeroporto che ci trasportava veloci
senza bisogno di camminare, davanti alle tante automobili, agli
edifici, ai pali elettrici che scambiavo per la Tour Eiffel. Tutto mi
appariva bello e migliore rispetto al villaggio: il nostro trilocale
a Bois-Colombes, il nostro primo couscous… Eravamo felici e curiosi
di ogni cosa che scoprivamo.
Vivevo con mia madre, andavo a scuola a
piedi e potevo giocare a calcio sulla piazza del mercato con il mio
nuovo amico cinese, Tchi. Avevo nove anni e la vita era bella.
Qualche volta accompagnavamo la mamma
al Secours Populaire per prendere cibo e vestiti in cambio dei buoni
che ci passava il comune. Ricordo ancora perfettamente il bellissimo
giubbotto rosso che avevo scelto e su cui avevo attaccato un’aquila
con le ali spiegate. Non ho avuto difficoltà a inserirmi, né ho mai
provato nostalgia. Ero concentrato sulla nostra vita e sul sogno di
mia madre di essere lì con i suoi figli, nonostante certe frasi
sentite prima di lasciare la Guadalupa, «chissà cosa pensa di fare
a Parigi con cinque bambini».
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Il modo in cui i genitori ci descrivono
e ci promettono come sarà la vita è fondamentale.
(…)
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Sin dall’infanzia mi sono confrontato
con i pregiudizi dell’una e dell’altra parte. La mia fortuna è
stata potermi muovere in contesti diversi, poter osservare e capire
come funzionavano le persone. Con curiosità, desiderio di imparare e
attenzione verso il mondo che mi circondava.
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La decostruzione del razzismo
È stato al mio arrivo a Parigi che
sono diventato nero. I miei compagni di classe e di gioco per primi
mi hanno definito così. Io non mi ero mai posto il problema. Con
loro ho scoperto che il colore della mia pelle poteva generare
domande e soprannomi dolorosi. A Bois-Colombes, dove ci eravamo
appena trasferiti, non capivo perché i ragazzi della scuola mi
avessero soprannominato «Noiraude», come la mucca nera di un
cartone animato che trasmettevano allora in televisione e la cui
idiozia e stupidità erano in contrasto con la rettitudine e
l’intelligenza della sua compagna bianca. Perché il colore nero
era associato al male, mentre il bianco era sinonimo di un
comportamento esemplare? Ad Anse-Bertrand non ci chiedevamo di che
colore fosse la nostra pelle. Eravamo tutti scuri.
Il soprannome «Noiraude» è stata la
prima ferita della mia infanzia, l’oggetto di molte riflessioni.
Perché il colore della mia pelle suscitava diffidenza e una sorta di
disprezzo?
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Una domanda dopo l’altra, ho capito
che il razzismo era prima di tutto una costruzione intellettuale che
si trasmetteva di generazione in generazione.
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Quando vado nelle scuole e chiedo
quante razze esistono, i bambini mi rispondono sempre «la bianca, la
nera, la gialla e la rossa», descrivendo le particolarità di
ciascuna. Questo mostra chiaramente che la decostruzione del razzismo
non è mai stata una priorità dell’insegnamento. È evidente che
la gerarchizzazione dei colori della pelle teorizzata da Joseph Ar
thur de Gobineau nel Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane,
pubblicato nel 1853 – nel quale indicava la razza nera come «la
più umile, che sta in fondo alla piramide», la gialla come quella
della «mediocrità» e la bianca come la razza «dell’immensa
superiorità dell’intelligenza in ogni ambito» –, ha permeato il
modo di pensare.
Se è vero che la scuola non ha svolto
il suo compito nell’educazione contro il razzismo, non lo ha fatto
neanche per sconfiggere l’ineguaglianza tra uomo e donna. Quegli
stessi scienziati che nel XIX secolo affermavano la supremazia
dell’uomo bianco trasmettevano al contempo l’idea della
cosiddetta inferiorità delle donne. Come sostiene l’antropologa
francese Françoise Héritier, «la questione dell’ineguaglianza
tra i sessi è eminentemente politica. Un modello che è la matrice
di tutti gli altri regimi di ineguaglianza». E come possono le
mentalità cambiare se manca la volontà politica?
È aberrante che le donne che hanno
lasciato un segno nella storia non abbiano ancora ottenuto il giusto
riconoscimento nei libri scolastici. Se così fosse stato, gran parte
dei pregiudizi e di certi atteggiamenti sarebbe stata spazzata via da
tempo. Se il De l’égalité des races humaines dell’antropologo
Anténor Firmin – pubblicato nel 1885 in risposta agli scritti e ai
numeri dell’antropometria e della craniologia in voga all’epoca
in Francia – fosse stato preso in considerazione dai suoi colleghi,
la storia del XX secolo sarebbe stata certamente molto diversa.
Ma come poteva un haitiano, un nero,
pretendere di conoscere la verità? Nonostante fosse membro della
Società di Antropologia di Parigi, come poteva opporsi alle «teorie»
esposte da Gobineau?
Nella Francia del XIX secolo
l’evoluzione dell’antropologia non è sfuggita ai rapporti di
forza che dominavano la politica sia interna sia internazionale. Mi
ci è voluto tempo per capire che si tratta fondamentalmente di
rapporti di forza. Basti pensare al modo in cui una manciata di Paesi
impone la propria egemonia su altre regioni del mondo, o elencare i
cinque Stati membri che, nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite, hanno il diritto di veto: Stati Uniti, Russia, Francia, Cina e
Regno Unito. Il blocco dei finanziamenti degli Stati Uniti all’Unesco
nel novembre 2011, come conseguenza dell’ammissione della Palestina
all’interno dell’Organizzazione, ne è un esempio.
(...)
È comprensibile che, nella società in
cui viviamo, le persone con la pelle nera possano essere associate a
un’immagine negativa, perché il messaggio che viene trasmesso
quando ci si riferisce a loro, sia a scuola sia attraverso i media,
molto spesso le pone a un livello inferiore. Quando chiedo ai bambini
quali sono le qualità dei neri, ancora oggi mi rispondono: «Corrono
veloci, sanno cantare e ballare bene»; è chiaro che hanno
assimilato inconsciamente il fatto che siano meno intelligenti. Nella
società occidentale, che separa il corpo dalla mente, è un fatto
naturale. Il giorno in cui sarà insegnata l’interazione tra le
civiltà e le culture, la mentalità potrà evolvere e i ragazzi mi
risponderanno: «La sua domanda non ha senso! Il colore della pelle
di una persona non ne determina affatto le qualità o i difetti».
Imparare la Storia permette anzitutto
di conoscere se stessi, e consente di proiettarsi più facilmente nel
futuro. L’ignoranza e le verità taciute creano tensioni,
malintesi, conflitti, e danno vita al razzismo sia da una parte, sia
dall’altra. Si giudica in base a ciò che si conosce. Maggiori sono
le conoscenze, più il giudizio diventa complesso, sfaccettato. Ecco
perché l’educazione e il modo in cui viene insegnata la Storia
sono così importanti: non bisogna avere paura di dare complessità
alle cose.
• • •
Il razzismo che permea la nostra
società ha una storia. Non è una fatalità. Insegnare la storia del
razzismo a scuola, o meglio la storia delle lotte per l’uguaglianza,
modificherebbe i comportamenti e le opinioni, ne sono sicuro.
• • •
Ma è un argomento delicato. Perché
alla base della schiavitù e del colonialismo c’è stato un modello
economico, gli albori di un terribile capitalismo espansionista in
cui s’imponeva il disprezzo di coloro che venivano sfruttati. Per i
Paesi occidentali, controllare lo sviluppo di quei popoli è stato un
modo per avere accesso alle loro risorse. È una verità
incontestabile. I rapporti tra la Francia e l’Africa sono dominati
da questa logica, basti pensare al Gabon, ricco di petrolio, o al
Niger, terzo produttore mondiale di uranio. E l’introduzione della
schiavitù in Europa ha replicato lo stesso meccanismo. Il
capitalismo non può funzionare e fruttare senza bassi costi di
produzione e una manodopera gratuita, o quanto meno a buon mercato.
Oggi in Francia e altrove vale ancora lo stesso discorso. I conflitti
che ci sono in molte parti del mondo ne sono la prova.
Più mi interesso al razzismo e alla
sua storia, più questi argomenti mi spingono a interessarmi alla
società di oggi, in cui dominano gli stessi immutabili rapporti di
forza e le stesse lotte. I poveri, che si trovano alla base della
piramide sociale, chiedono ancora giustizia. Ecco perché è
necessario ascoltarli, perché scontano sulla loro pelle le
ingiustizie della nostra società, sebbene oggi alcune città (in
Francia penso a Nizza o Marsiglia, ad esempio) tendano a cancellarli
dalla vista, vietando loro di chiedere l’elemosina. Voler
dissimulare la miseria, tuttavia, non fa altro che rendere più
evidente l’ingiustizia e l’esclusione che subiscono quegli uomini
e quelle donne. Dobbiamo prendere parte a un processo di lotta per
l’uguaglianza; una lotta che si potrà vincere costringendo i
politici a intraprendere le misure necessarie al cambiamento.
Domande:
1. Perché Thuram parla di decostruzione del razzismo?
Perché il razzismo è prima di tutto una costruzione intellettuale che si trasmette di generazione in generazione, ovvero è un prodotto del pensiero dell'uomo.
2. Individua le cause del razzismo.
Alla base della schiavitù e del colonialismo c’è stato un modello economico, gli albori di un terribile capitalismo espansionista in cui s’imponeva il disprezzo di coloro che venivano sfruttati. Per i Paesi occidentali, controllare lo sviluppo di quei popoli è stato un modo per avere accesso alle loro risorse.
3. Che cosa propone alla fine del capitolo Lilian Thuram.
Thuram che bisogna ascoltare i poveri, che scontano sulla loro pelle le ingiustizie della nostra società e prendere parte a un processo di lotta per l’uguaglianza; una lotta che si potrà vincere costringendo i politici a intraprendere le misure necessarie al cambiamento.
Domande:
1. Perché Thuram parla di decostruzione del razzismo?
Perché il razzismo è prima di tutto una costruzione intellettuale che si trasmette di generazione in generazione, ovvero è un prodotto del pensiero dell'uomo.
2. Individua le cause del razzismo.
Alla base della schiavitù e del colonialismo c’è stato un modello economico, gli albori di un terribile capitalismo espansionista in cui s’imponeva il disprezzo di coloro che venivano sfruttati. Per i Paesi occidentali, controllare lo sviluppo di quei popoli è stato un modo per avere accesso alle loro risorse.
3. Che cosa propone alla fine del capitolo Lilian Thuram.
Thuram che bisogna ascoltare i poveri, che scontano sulla loro pelle le ingiustizie della nostra società e prendere parte a un processo di lotta per l’uguaglianza; una lotta che si potrà vincere costringendo i politici a intraprendere le misure necessarie al cambiamento.
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