09 marzo 2015

Per l'uguaglianza: Imparare a conoscere il mondo. La decostruzione del razzismo.


JR

Imparare a conoscere il mondo
Nella mia vita ho incontrato persone determinanti, fondamentali, a cominciare da mia madre Mariana, la cui forza, dedizione assoluta ai figli, coraggio e affidabilità non sono mai venute meno. Donna calma e rassicurante, ha sempre rivendicato e gestito da sola il ruolo di capofamiglia con un’autorità giusta e un intuito straordinario. Se mi comportavo male o commettevo una sciocchezza non si faceva problemi a venire a rimproverarmi a scuola, davanti ai miei compagni.
All’epoca, in Guadalupa, il rapporto con l’adulto, e in generale con le persone più grandi, era completamente diverso rispetto alla Francia. Quando sono arrivato a Parigi restavo a bocca aperta quando sentivo i figli rispondere a tono ai genitori. Ad Anse-Bertrand, se per strada dicevo una parolaccia, un adulto poteva prendermi per un orecchio e dirmi: «È questo che ti insegnano a scuola?» Qualunque adulto era autorizzato a darmi una sculacciata, se lo riteneva opportuno per la mia educazione, e allo stesso modo poteva chiedermi di andare a comprare per lui dell’olio, del merluzzo o delle lenticchie. Il bambino non era mai lasciato da solo, della sua educazione si occupavano tutti gli adulti del villaggio. Ecco perché non si potevano dire certe cose, o comportarsi in un determinato modo.
Avevo otto anni il giorno in cui mia madre ci ha riuniti tutti intorno a un tavolo per spiegarci che ci avrebbe lasciati soli per un anno: sarebbe andata a Parigi a lavorare come donna delle pulizie, promettendo di tornare a prenderci per ripartire tutti insieme. Se non fosse tornata non sarei mai diventato quello che sono, e probabilmente non mi sarei più fidato della sua parola né di quella di chiunque altro.
Per mia madre andare in Francia significava farci crescere meglio, garantirci maggiori opportunità e liberarsi di un lavoro massacrante. In Guadalupa tagliava la canna da zucchero e faceva le pulizie.
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Capisco le persone che si arrischiano ad attraversare la savana, i deserti, i mari, le foreste o le montagne per sfuggire alla fame, alla miseria e all’incertezza o per costruire un futuro migliore.
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Il ragionamento di mia madre era lo stesso che nel corso del XX secolo ha portato a Parigi persone provenienti dalla Borgogna, dall’Auvergne, dalla Savoia o dalla Bretagna, ma anche italiani, polacchi, ebrei dell’Europa orientale e spagnoli, e poi algerini, portoghesi, vietnamiti, congolesi, maliani, ivoriani e cinesi. Sin dai tempi dell’Homo sapiens ogni individuo ha tentato di proteggere e migliorare la propria vita e quella dei suoi cari. Non è forse vero che ognuno di noi sarebbe pronto a tutto pur di riuscirci? È scritto nei «nostri geni», è l’istinto di sopravvivenza. E allora perché emigrare per provvedere alle necessità della propria famiglia quando si è poveri viene considerato un reato che merita la reclusione? Anche le persone fortunate sono colpevoli di mandare i figli nelle migliori università anglosassoni per garantire loro un futuro migliore?
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Nel mondo, le stigmatizzazioni più violente riguardano sempre i più sfortunati, gli svantaggiati. E questo a prescindere dal colore della loro pelle o della religione che professano. I poveri fanno paura.
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Che fosse in Guadalupa o in Francia, mia madre non si è mai compianta riguardo alla propria sorte, né a parole né nel modo di comportarsi. Al contrario, quando si vestiva sembrava la first lady dell’isola, ed è così ancora oggi! Il suo entusiasmo è contagioso.
Ricordo il modo in cui ci descriveva Parigi e la vita laggiù: un paradiso nel quale ci saremmo potuti realizzare. Il giorno della partenza abbiamo indossato i vestiti migliori e detto arrivederci alla famiglia, e io ho salutato senza tristezza i miei amici Marik, Olivier e Relique. Il viaggio in aereo è stato una festa e dall’arrivo a Orly un continuo stupore, davanti al tapis roulant dell’aeroporto che ci trasportava veloci senza bisogno di camminare, davanti alle tante automobili, agli edifici, ai pali elettrici che scambiavo per la Tour Eiffel. Tutto mi appariva bello e migliore rispetto al villaggio: il nostro trilocale a Bois-Colombes, il nostro primo couscous… Eravamo felici e curiosi di ogni cosa che scoprivamo.
Vivevo con mia madre, andavo a scuola a piedi e potevo giocare a calcio sulla piazza del mercato con il mio nuovo amico cinese, Tchi. Avevo nove anni e la vita era bella.
Qualche volta accompagnavamo la mamma al Secours Populaire per prendere cibo e vestiti in cambio dei buoni che ci passava il comune. Ricordo ancora perfettamente il bellissimo giubbotto rosso che avevo scelto e su cui avevo attaccato un’aquila con le ali spiegate. Non ho avuto difficoltà a inserirmi, né ho mai provato nostalgia. Ero concentrato sulla nostra vita e sul sogno di mia madre di essere lì con i suoi figli, nonostante certe frasi sentite prima di lasciare la Guadalupa, «chissà cosa pensa di fare a Parigi con cinque bambini».
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Il modo in cui i genitori ci descrivono e ci promettono come sarà la vita è fondamentale.

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Sin dall’infanzia mi sono confrontato con i pregiudizi dell’una e dell’altra parte. La mia fortuna è stata potermi muovere in contesti diversi, poter osservare e capire come funzionavano le persone. Con curiosità, desiderio di imparare e attenzione verso il mondo che mi circondava.
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La decostruzione del razzismo
È stato al mio arrivo a Parigi che sono diventato nero. I miei compagni di classe e di gioco per primi mi hanno definito così. Io non mi ero mai posto il problema. Con loro ho scoperto che il colore della mia pelle poteva generare domande e soprannomi dolorosi. A Bois-Colombes, dove ci eravamo appena trasferiti, non capivo perché i ragazzi della scuola mi avessero soprannominato «Noiraude», come la mucca nera di un cartone animato che trasmettevano allora in televisione e la cui idiozia e stupidità erano in contrasto con la rettitudine e l’intelligenza della sua compagna bianca. Perché il colore nero era associato al male, mentre il bianco era sinonimo di un comportamento esemplare? Ad Anse-Bertrand non ci chiedevamo di che colore fosse la nostra pelle. Eravamo tutti scuri.
Il soprannome «Noiraude» è stata la prima ferita della mia infanzia, l’oggetto di molte riflessioni. Perché il colore della mia pelle suscitava diffidenza e una sorta di disprezzo?
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Una domanda dopo l’altra, ho capito che il razzismo era prima di tutto una costruzione intellettuale che si trasmetteva di generazione in generazione.
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Quando vado nelle scuole e chiedo quante razze esistono, i bambini mi rispondono sempre «la bianca, la nera, la gialla e la rossa», descrivendo le particolarità di ciascuna. Questo mostra chiaramente che la decostruzione del razzismo non è mai stata una priorità dell’insegnamento. È evidente che la gerarchizzazione dei colori della pelle teorizzata da Joseph Ar thur de Gobineau nel Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, pubblicato nel 1853 – nel quale indicava la razza nera come «la più umile, che sta in fondo alla piramide», la gialla come quella della «mediocrità» e la bianca come la razza «dell’immensa superiorità dell’intelligenza in ogni ambito» –, ha permeato il modo di pensare.
Se è vero che la scuola non ha svolto il suo compito nell’educazione contro il razzismo, non lo ha fatto neanche per sconfiggere l’ineguaglianza tra uomo e donna. Quegli stessi scienziati che nel XIX secolo affermavano la supremazia dell’uomo bianco trasmettevano al contempo l’idea della cosiddetta inferiorità delle donne. Come sostiene l’antropologa francese Françoise Héritier, «la questione dell’ineguaglianza tra i sessi è eminentemente politica. Un modello che è la matrice di tutti gli altri regimi di ineguaglianza». E come possono le mentalità cambiare se manca la volontà politica?
È aberrante che le donne che hanno lasciato un segno nella storia non abbiano ancora ottenuto il giusto riconoscimento nei libri scolastici. Se così fosse stato, gran parte dei pregiudizi e di certi atteggiamenti sarebbe stata spazzata via da tempo. Se il De l’égalité des races humaines dell’antropologo Anténor Firmin – pubblicato nel 1885 in risposta agli scritti e ai numeri dell’antropometria e della craniologia in voga all’epoca in Francia – fosse stato preso in considerazione dai suoi colleghi, la storia del XX secolo sarebbe stata certamente molto diversa.
Ma come poteva un haitiano, un nero, pretendere di conoscere la verità? Nonostante fosse membro della Società di Antropologia di Parigi, come poteva opporsi alle «teorie» esposte da Gobineau?
Nella Francia del XIX secolo l’evoluzione dell’antropologia non è sfuggita ai rapporti di forza che dominavano la politica sia interna sia internazionale. Mi ci è voluto tempo per capire che si tratta fondamentalmente di rapporti di forza. Basti pensare al modo in cui una manciata di Paesi impone la propria egemonia su altre regioni del mondo, o elencare i cinque Stati membri che, nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, hanno il diritto di veto: Stati Uniti, Russia, Francia, Cina e Regno Unito. Il blocco dei finanziamenti degli Stati Uniti all’Unesco nel novembre 2011, come conseguenza dell’ammissione della Palestina all’interno dell’Organizzazione, ne è un esempio.

(...)

È comprensibile che, nella società in cui viviamo, le persone con la pelle nera possano essere associate a un’immagine negativa, perché il messaggio che viene trasmesso quando ci si riferisce a loro, sia a scuola sia attraverso i media, molto spesso le pone a un livello inferiore. Quando chiedo ai bambini quali sono le qualità dei neri, ancora oggi mi rispondono: «Corrono veloci, sanno cantare e ballare bene»; è chiaro che hanno assimilato inconsciamente il fatto che siano meno intelligenti. Nella società occidentale, che separa il corpo dalla mente, è un fatto naturale. Il giorno in cui sarà insegnata l’interazione tra le civiltà e le culture, la mentalità potrà evolvere e i ragazzi mi risponderanno: «La sua domanda non ha senso! Il colore della pelle di una persona non ne determina affatto le qualità o i difetti».
Imparare la Storia permette anzitutto di conoscere se stessi, e consente di proiettarsi più facilmente nel futuro. L’ignoranza e le verità taciute creano tensioni, malintesi, conflitti, e danno vita al razzismo sia da una parte, sia dall’altra. Si giudica in base a ciò che si conosce. Maggiori sono le conoscenze, più il giudizio diventa complesso, sfaccettato. Ecco perché l’educazione e il modo in cui viene insegnata la Storia sono così importanti: non bisogna avere paura di dare complessità alle cose.
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Il razzismo che permea la nostra società ha una storia. Non è una fatalità. Insegnare la storia del razzismo a scuola, o meglio la storia delle lotte per l’uguaglianza, modificherebbe i comportamenti e le opinioni, ne sono sicuro.
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Ma è un argomento delicato. Perché alla base della schiavitù e del colonialismo c’è stato un modello economico, gli albori di un terribile capitalismo espansionista in cui s’imponeva il disprezzo di coloro che venivano sfruttati. Per i Paesi occidentali, controllare lo sviluppo di quei popoli è stato un modo per avere accesso alle loro risorse. È una verità incontestabile. I rapporti tra la Francia e l’Africa sono dominati da questa logica, basti pensare al Gabon, ricco di petrolio, o al Niger, terzo produttore mondiale di uranio. E l’introduzione della schiavitù in Europa ha replicato lo stesso meccanismo. Il capitalismo non può funzionare e fruttare senza bassi costi di produzione e una manodopera gratuita, o quanto meno a buon mercato. Oggi in Francia e altrove vale ancora lo stesso discorso. I conflitti che ci sono in molte parti del mondo ne sono la prova.
Più mi interesso al razzismo e alla sua storia, più questi argomenti mi spingono a interessarmi alla società di oggi, in cui dominano gli stessi immutabili rapporti di forza e le stesse lotte. I poveri, che si trovano alla base della piramide sociale, chiedono ancora giustizia. Ecco perché è necessario ascoltarli, perché scontano sulla loro pelle le ingiustizie della nostra società, sebbene oggi alcune città (in Francia penso a Nizza o Marsiglia, ad esempio) tendano a cancellarli dalla vista, vietando loro di chiedere l’elemosina. Voler dissimulare la miseria, tuttavia, non fa altro che rendere più evidente l’ingiustizia e l’esclusione che subiscono quegli uomini e quelle donne. Dobbiamo prendere parte a un processo di lotta per l’uguaglianza; una lotta che si potrà vincere costringendo i politici a intraprendere le misure necessarie al cambiamento.

Domande:
1. Perché Thuram parla di decostruzione del razzismo?
Perché il razzismo è prima di tutto una costruzione intellettuale che si trasmette di generazione in generazione, ovvero è un prodotto del pensiero dell'uomo.
2. Individua le cause del razzismo.
Alla base della schiavitù e del colonialismo c’è stato un modello economico, gli albori di un terribile capitalismo espansionista in cui s’imponeva il disprezzo di coloro che venivano sfruttati. Per i Paesi occidentali, controllare lo sviluppo di quei popoli è stato un modo per avere accesso alle loro risorse.
3. Che cosa propone alla fine del capitolo Lilian Thuram.
Thuram che bisogna ascoltare i poveri, che scontano sulla loro pelle le ingiustizie della nostra società  e prendere parte a un processo di lotta per l’uguaglianza; una lotta che si potrà vincere costringendo i politici a intraprendere le misure necessarie al cambiamento.

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