FOTO PRIMO PIANO Sono
Fauitan. Sono nigerina. Sono nata nel villaggio di
di contadini di Bala
Bèrim, sulle rive nigerine del
lago Ciad. La mia storia di migrante cominciò il giorno in cui io e
i miei fratelli decidemmo di partire per Tripoli in un periodo in cui
la Libia era ancora un miraggio per tanti africani.
FOTO NIGER Dal Niger si
scappa da sempre. E’ un paese flagellato dalla povertà e dalla
mancanza di acqua.
FOTO ROTTA MIGRATORIA Il
viaggio verso la capitale libica cominciò su un camion che ci portò
ad Agadez.
FOTO CAMION La rotta dei
migranti attraversa il Niger e congiunge l'Africa centrale alla Libia
seguendo un antico tragitto carovaniero.
FOTO URLO DESERTO Una volta
in Libia i migranti vengono sfruttati senza pietà dagli uomini
armati dei vari clan che, li derubano, li stuprano, li rapiscono per
poi ricattare le famiglie o gli amici.
FOTO CAMION DESERTO 2 Attraverso
il deserto si prosegue verso Tripoli. Nelle traversate del Sahara la
vita è appesa a un filo. Se il camion va in panne o si insabbia, o
l’autista decide di abbandonare i passeggeri, è finita. Per
chilometri non c’è altro che sabbia. Muoiono decine di persone
ogni giorno. E’ qui che inizia il mio viaggio, nella sabbia rovente
del deserto africano.
FOTO MILIZIANI Arrivai a
Tripoli proprio quando i cambiamenti degli scenari internazionali e
la paura di un’invasione di disperati spinse l’Europa a chiedere
ai libici una collaborazione che garantisse garantire la sicurezza
del Vecchio Continente. Un’emergenza sicurezza che giustificò, e
giustifica ancora oggi, la “pulizia“ degli illegali.
FOTO MISERO ALLOGGIO Venni
rapita dal mio misero alloggio durante un raid e fui così testimone
degli orrori dei centri di detenzione libici gestiti dai “Katiba”
, le brigate di militari.
FOTO KATIBA
FOTO HANGAR Venni portata
nel campo di Tobisha e segregata insieme a centinaia di persone in un
hangar rovente. Le condizioni di vita erano indegne violente e
umilianti
FOTO DONNE SOMALE Incontrai
qui alcune donne somale. Erano state riportate in Libia da una nave
croata, dopo alcuni giorni di deriva nel Mediterraneo. Mi
raccontarono di essere fuggite dal campo Boushada.
FOTO CELLE BOUSHADA Dissero
che era un inferno in cui i migranti venivano rinchiusi in celle
piccole e molto calde da cui uscivano solo per i lavori forzati. Ogni
tanto qualche giovane ragazza veniva portata negli alloggi dei
militari.
FOTO ABUSO Se era fortunata,
ritornava, ma non era più
la stessa.
FOTO OMBRE Purtroppo
questa sorte toccò anche a me. Insieme ad altre 18 ragazze venni
condotta a Boushada e qui cominciò il mio inferno di abusi e
violenze.
LIBERTA’ Un giorno nel
campo ci fu un’incursione di ribelli che liberarono una parte dei
prigionieri. Io ero una di loro.
Scampata a quell’orrore, riuscii in tutti i modi che
conoscevo, anche non leciti, a trovare i soldi che servivano per il
viaggio. Volevo arrivare in Italia. Se fossi rimasta in Africa sarei
morta.
BARCONE Questo viaggio fu
una tortura. Ci ‘’buttarono’’ su un barcone fatiscente. Si
moriva. Persi molti dei miei compagni. Il dolore era insopportabile.
MANI Quando la morte sfiora
le persone e le accomuna in un unico destino, le rende un’ unica
famiglia. Morirono in quaranta quella notte e altri 20 morirono la
notte successiva. Per un attimo avrei voluto morire anch’io e
dimenticare tutto. Invece il destino mi portò in salvo.
LUOGO AFFOLLATO Una volta in
Italia la vita non fu facile. Al centro di accoglienza per un attimo
mi sentii quasi come in Libia. Lo spazio era poco e noi tantissimi.
Però nessuna violenza, niente botte, cibo e acqua ogni giorno.
MANI SULLA FACCIA Scoprii di
essere incinta. Era il figlio di una violenza che ricorderò per
sempre ma era anche mio figlio. Molte volte ho pensato di strapparlo
via da me. Poi ho capito che lui non aveva colpe e che uccidendolo
avrei ucciso anche una parte di me. Questo avrebbe rappresentato la
vittoria di tutte le violenze. Decisi di lasciarlo vivere e di
amarlo. Era mio, solo mio.
FOTO AMICHE Un giorno venni
trasferita vicino a Milano e grazie al programma di accoglienza
riuscii a trovare un modesto alloggio che condividevo con altre
ragazze tutte con una storia simile alla mia ma di paesi diversi .
PANCIONE Non conoscere la
lingua italiana mi impedì di avere relazioni sociali, di parlare dei
miei bisogni. Per molto tempo l’unico rapporto fu quello silenzioso
con il figlio che portavo in grembo.
FOTO PARCO CON BAMBINI Ero
un’estranea, lontana dal mio mondo che era sparito in un attimo.
C’era un parco bellissimo sotto casa dove molte mamme portavano i
loro bambini a giocare. Un giorno sentii il bisogno di andarci e
respirare un po’ di aria fresca.
FOTO SOLA Ma quando mi
sedevo su una panchina le persone mi guardavano con diffidenza. Io mi
accarezzavo il pancione e tenevo gli occhi bassi. Nessuno si
avvicinava. Ero sola.
RAGAZZO DELLA PANCHINA Un
giorno un decise di sedersi proprio vicino a me. E lo fece anche il
giorno dopo e poi ogni giorno accennando un sorriso. Io rispondevo
con un sorriso
FOTO ABBRACCIO CON RAGAZZO Io
e il ragazzo della panchina cominciammo a scambiarci qualche parola.
Avevo un po’ paura perché lo conoscevo da poco ma andò tutto
bene. Finalmente qualcuno con cui potevo comunicare e che riusciva a
capirmi.
.
MANO CON FOTO DELLA FAMIGLIA Non
volevo essere sola, i miei genitori erano lontanissimi e i miei
fratelli non li avevo più visti dal giorno in cui mi trasferirono a
Boushada. Il ragazzo della panchina era tutta la mia famiglia in quel
momento.
FOTO SALA PARTO Pianse a
lungo quando gli chiesi di assistere al parto di mia figlia.
Si , figlia!
non poteva che essere femmina.
L’ho voluta chiamare Esperanza Vittoria.
Lei potrà crescere senza dover fuggire ogni giorno.
FOTO RAGAZZO, BIMBA, FAUTAN Potrà
crescere senza conoscere quella violenza senza futuro che ho
conosciuto io.
FOTO MANI BIANCO NERO
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