23 aprile 2015

Sceneggiatura: Storia di Fauitan di Arianna Piuri


FOTO PRIMO PIANO Sono Fauitan. Sono nigerina. Sono nata nel villaggio di di contadini di Bala Bèrim, sulle rive nigerine del lago Ciad. La mia storia di migrante cominciò il giorno in cui io e i miei fratelli decidemmo di partire per Tripoli in un periodo in cui la Libia era ancora un miraggio per tanti africani.
FOTO NIGER Dal Niger si scappa da sempre. E’ un paese flagellato dalla povertà e dalla mancanza di acqua.
FOTO ROTTA MIGRATORIA Il viaggio verso la capitale libica cominciò su un camion che ci portò ad Agadez.
FOTO CAMION La rotta dei migranti attraversa il Niger e congiunge l'Africa centrale alla Libia seguendo un antico tragitto carovaniero.

FOTO URLO DESERTO Una volta in Libia i migranti vengono sfruttati senza pietà dagli uomini armati dei vari clan che, li derubano, li stuprano, li rapiscono per poi ricattare le famiglie o gli amici.
FOTO CAMION DESERTO 2 Attraverso il deserto si prosegue verso Tripoli. Nelle traversate del Sahara la vita è appesa a un filo. Se il camion va in panne o si insabbia, o l’autista decide di abbandonare i passeggeri, è finita. Per chilometri non c’è altro che sabbia. Muoiono decine di persone ogni giorno. E’ qui che inizia il mio viaggio, nella sabbia rovente del deserto africano.
FOTO MILIZIANI Arrivai a Tripoli proprio quando i cambiamenti degli scenari internazionali e la paura di un’invasione di disperati spinse l’Europa a chiedere ai libici una collaborazione che garantisse garantire la sicurezza del Vecchio Continente. Un’emergenza sicurezza che giustificò, e giustifica ancora oggi, la “pulizia“ degli illegali.
FOTO MISERO ALLOGGIO Venni rapita dal mio misero alloggio durante un raid e fui così testimone degli orrori dei centri di detenzione libici gestiti dai “Katiba” , le brigate di militari.
FOTO KATIBA


FOTO HANGAR Venni portata nel campo di Tobisha e segregata insieme a centinaia di persone in un hangar rovente. Le condizioni di vita erano indegne violente e umilianti
FOTO DONNE SOMALE Incontrai qui alcune donne somale. Erano state riportate in Libia da una nave croata, dopo alcuni giorni di deriva nel Mediterraneo. Mi raccontarono di essere fuggite dal campo Boushada.
FOTO CELLE BOUSHADA Dissero che era un inferno in cui i migranti venivano rinchiusi in celle piccole e molto calde da cui uscivano solo per i lavori forzati. Ogni tanto qualche giovane ragazza veniva portata negli alloggi dei militari.
FOTO ABUSO Se era fortunata, ritornava, ma non era più la stessa.

FOTO OMBRE Purtroppo questa sorte toccò anche a me. Insieme ad altre 18 ragazze venni condotta a Boushada e qui cominciò il mio inferno di abusi e violenze.
LIBERTA’ Un giorno nel campo ci fu un’incursione di ribelli che liberarono una parte dei prigionieri. Io ero una di loro.
Scampata a quell’orrore, riuscii in tutti i modi che conoscevo, anche non leciti, a trovare i soldi che servivano per il viaggio. Volevo arrivare in Italia. Se fossi rimasta in Africa sarei morta.

BARCONE Questo viaggio fu una tortura. Ci ‘’buttarono’’ su un barcone fatiscente. Si moriva. Persi molti dei miei compagni. Il dolore era insopportabile.
MANI Quando la morte sfiora le persone e le accomuna in un unico destino, le rende un’ unica famiglia. Morirono in quaranta quella notte e altri 20 morirono la notte successiva. Per un attimo avrei voluto morire anch’io e dimenticare tutto. Invece il destino mi portò in salvo.

LUOGO AFFOLLATO Una volta in Italia la vita non fu facile. Al centro di accoglienza per un attimo mi sentii quasi come in Libia. Lo spazio era poco e noi tantissimi. Però nessuna violenza, niente botte, cibo e acqua ogni giorno.
MANI SULLA FACCIA Scoprii di essere incinta. Era il figlio di una violenza che ricorderò per sempre ma era anche mio figlio. Molte volte ho pensato di strapparlo via da me. Poi ho capito che lui non aveva colpe e che uccidendolo avrei ucciso anche una parte di me. Questo avrebbe rappresentato la vittoria di tutte le violenze. Decisi di lasciarlo vivere e di amarlo. Era mio, solo mio.

FOTO AMICHE Un giorno venni trasferita vicino a Milano e grazie al programma di accoglienza riuscii a trovare un modesto alloggio che condividevo con altre ragazze tutte con una storia simile alla mia ma di paesi diversi .

PANCIONE Non conoscere la lingua italiana mi impedì di avere relazioni sociali, di parlare dei miei bisogni. Per molto tempo l’unico rapporto fu quello silenzioso con il figlio che portavo in grembo.

FOTO PARCO CON BAMBINI Ero un’estranea, lontana dal mio mondo che era sparito in un attimo. C’era un parco bellissimo sotto casa dove molte mamme portavano i loro bambini a giocare. Un giorno sentii il bisogno di andarci e respirare un po’ di aria fresca.
FOTO SOLA Ma quando mi sedevo su una panchina le persone mi guardavano con diffidenza. Io mi accarezzavo il pancione e tenevo gli occhi bassi. Nessuno si avvicinava. Ero sola.
RAGAZZO DELLA PANCHINA Un giorno un decise di sedersi proprio vicino a me. E lo fece anche il giorno dopo e poi ogni giorno accennando un sorriso. Io rispondevo con un sorriso
FOTO ABBRACCIO CON RAGAZZO Io e il ragazzo della panchina cominciammo a scambiarci qualche parola. Avevo un po’ paura perché lo conoscevo da poco ma andò tutto bene. Finalmente qualcuno con cui potevo comunicare e che riusciva a capirmi.
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MANO CON FOTO DELLA FAMIGLIA Non volevo essere sola, i miei genitori erano lontanissimi e i miei fratelli non li avevo più visti dal giorno in cui mi trasferirono a Boushada. Il ragazzo della panchina era tutta la mia famiglia in quel momento.
FOTO SALA PARTO Pianse a lungo quando gli chiesi di assistere al parto di mia figlia.
Si , figlia!
non poteva che essere femmina.
L’ho voluta chiamare Esperanza Vittoria.
Lei potrà crescere senza dover fuggire ogni giorno.

FOTO RAGAZZO, BIMBA, FAUTAN Potrà crescere senza conoscere quella violenza senza futuro che ho conosciuto io.

FOTO MANI BIANCO NERO

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