23 febbraio 2015

Per l'uguaglianza di Lilian Thuram






"Per l'uguaglianza" è un libro  pubblicato nel 2014 da Lilian Thuram.
Lilian Thuram è stato un calciatore e ha giocato in importanti squadre europee, quando ha deciso di concludere la sua carriera di calciatore si è dedicato ad attività contro il razzismo; ha scritto libri "Le mie stelle nere", e creato una fondazione "Lilian Thuram, Education contre le racisme".
"Per l'uguaglianza" è diviso in due parti "Come cambiare i nostri immaginari" e "I miei incontri con l'uguaglianza". Nella prima parte divisa in cinque capitoli Thuram racconta la sua esperienza di vita e riflette sul razzismo e le  altre gravi forme di discriminazione dell'uomo contro l'uomo e su "come educare bambini e adulti contro il razzismo e demolire quella costruzione intellettuale e i pregiudizi che ha generato". Nella seconda parte del libro "I miei incontri con l'uguaglianza" Thuram riporta i suoi ventitre colloqui con storici, sociologi, antropologi, scrittori che lo hanno aiutato a capire "come funzione l'essere umano" e a conoscere la storia del razzismo e delle lotte per l'uguaglianza, perché Thuram è convinto che "tutte le culture partecipano a quell'insieme che è l'uomo".
Di seguito riportiamo un estratto della prima parte del libro per iniziare insieme la sua lettura.


Il mondo è un posto pericoloso in cui vivere,
non a causa di coloro che fanno del male,
ma di quelli che stanno a guardare e lasciano che accada.
Albert Einstein

Come cambiare i nostri immaginari


I
Domande
Non si sfugge mai davvero al luogo in cui si è nati, a quello in cui si vive, alla famiglia o alla comunità cui si appartiene, all’educazione che ci hanno dato i nostri genitori e la scuola. Sono stato il primo bambino nato in Guadalupa nel 1972, e il penultimo di una famiglia con cinque figli nati da cinque padri diversi. Gaétan, Martine, Antonio – che oggi non c’è più –, io e Liliana siamo vissuti senza un padre, come a quell’epoca tanti altri bambini della Guadalupa, un luogo dove il sistema matriarcale era, e purtroppo è ancora, alla base della società. Vivevamo con nostra madre Mariana a nord dell’isola di Grande-Terre, ad Anse-Bertrand, una piccola città che aveva l’aspetto di un paese, circondata da campi di canna da zucchero e dove tutti si conoscevano. Mio padre – che preferisco definire il mio genitore, senza alcuna ostilità, ma perché tra noi non ci sono contatti – era un fornaio. Abitava a Port-Louis, a una decina di chilometri dal mio paese.
Ad Anse-Bertrand la nostra condizione era molto diffusa, ma quando all’età di nove anni sono arrivato in Francia, confrontare la mia struttura familiare con quella dei miei compagni di classe mi ha spinto a farmi delle domande. Perché mio padre non era rimasto con mia madre? Perché mia madre aveva avuto cinque figli da cinque uomini diversi? Qual era allora il ruolo del padre, se non era presente?
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Le prime domande che mi sono fatto riguardavano la mia famiglia. Dubbi silenziosi che cercavano di farmi capire la mia storia, e con essa quella di una società e di una cultura in cui la madre era una figura ultrapotente, onnipresente.
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Mia madre era la roccia su cui poggiava tutta la famiglia. La sua parola era più importante di quella di chiunque altro. Non si poteva sfuggire al suo sguardo, né alla sua autorità, spesso condivisa con mio fratello maggiore, Gaétan. Molti anni dopo ho imparato che l’origine di quel sistema aveva radici nell’epoca della schiavitù, quando il ruolo dell’uomo era ridotto a quello di semplice genitore, proprio come sanciscono gli articoli 12 e 13 del Code noir1 del 1685, che regolamentava la schiavitù nelle colonie francesi: «I figli che nasceranno dai matrimoni tra schiavi saranno schiavi e apparterranno ai padroni delle donne schiave, e non a quelli dei loro mariti, se marito e moglie hanno padroni diversi»; «Se il marito schiavo ha sposato una donna libera, stabiliamo che i figli, siano essi maschi o femmine, seguano le condizioni della madre e siano liberi come lei nonostante la schiavitù del padre, e che, se il padre è un uomo libero e la madre una schiava, siano schiavi come lei».
La storia della schiavitù l’ho scoperta soltanto al liceo, in Francia. In Guadalupa non mi avevano mai parlato della tratta dei neri, né, più in generale, della storia della mia isola. Se lo avessero fatto, avrei capito prima i pregiudizi legati al colore della pelle, nei quali prevale ancora un complesso di superiorità del chiaro sullo scuro. Sono molti quelli che ancora oggi non vogliono o non possono affrontare questa parte della storia, persino nelle Antille, sebbene la schiavitù abbia avuto un peso fondamentale nella struttura della famiglia.
Ho voluto avere figli molto presto forse, inconsciamente, per essere il padre che non avevo avuto. Ci si immagina sempre un padre ideale, soprattutto quando non lo si ha. Ecco perché da piccolo volevo anche diventare prete, perché era il supereroe, il superuomo che, semplicemente alzando la croce, poteva sconfiggere i volans (gli spiriti malvagi) che di notte uscivano dai cimiteri per portare via i bambini. Ma rappresentava anche l’autorità che sapeva perdonare, unire, pacificare. È stata un’enorme tristezza scoprire che i preti non potevano avere figli. Ancora oggi non ne capisco il perché.
Quand’ero bambino, come tutti i bambini del mondo, facevo un sacco di domande, «troppe», mi diceva mia madre. I bambini esprimono molto presto il desiderio di capire, e sono curiosi di conoscere quello che li circonda. Il fatto di interrogarsi e di rivolgere l’attenzione agli altri o alle situazioni più banali consente loro di cogliere moltissime cose. I genitori li rimproverano spesso a questo proposito: «Smettila di fare domande», dicono.
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Eppure, essere curiosi e voler imparare è un’attitudine intrinseca a ogni bambino, una caratteristica che gli permette di crescere. Per capire il mondo in cui viviamo bisognerebbe spiegare che le domande sono inesauribili e infinite, e che i territori della ricerca non hanno frontiere. Dovremmo essere sempre aperti a ogni curiosità, a ogni domanda.
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Le domande hanno caratterizzato anche la mia carriera di calciatore: osservare e analizzare il gioco dei miei compagni di squadra e dei miei avversari mi ha permesso di migliorare. Quante cose ho chiesto ai miei allenatori! Perché bisognava fare in quel modo? Alcuni mi rispondevano, altri, compresi i miei compagni di squadra, mi dicevano di stare tranquillo. «Sii più naturale», mi suggerivano. Quella risposta non la capivo. Se facevo tante domande era perché volevo capire il meccanismo e la logica del gioco, per poterli riprodurre alla lettera o interpretarli a modo mio.
Quand’ero all’AS Monaco e ho cominciato a giocare con i professionisti mi piaceva fare domande ai più grandi e ascoltare le loro esperienze, tanto quelle positive quanto quelle negative. Mi nutrivo delle loro storie e meditavo sui loro consigli. Ho acquisito una conoscenza più approfondita e sono diventato un giocatore migliore. Ricordo ancora Claude Puel, ex giocatore dell’AS Monaco, che mi spiegava la necessità di essere intransigenti con se stessi. È molto difficile dare un giudizio severo su di sé. Di solito abbiamo la tendenza a proiettare o riversare le nostre difficoltà sull’altro, sugli altri. È «lui», sono «loro» il problema. Le squadre di calcio in cui ho giocato mi hanno insegnato tanto riguardo a questo atteggiamento, che spesso porta a sbagliare.
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Per migliorare è importante imparare a conoscere le nostre qualità e i nostri difetti, sapere come «funzioniamo». La scuola non me lo aveva mai insegnato, e nemmeno la mia famiglia. Se ognuno di noi fosse educato a farsi domande per capire, sarebbe più facile comprendere l’altro, molte divergenze e ostilità, molti malintesi, pregiudizi e rancori scomparirebbero.
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Lo stesso discorso vale per una società: se non si fa domande su se stessa non può sapere come funziona, capire su cosa è stata costruita, né far crollare i pregiudizi che in essa risiedono. Ogni domanda ne porta con sé un’altra. Senza questo meccanismo di autoanalisi non saremo mai capaci di progettare il futuro in modo intelligente. Una domanda dopo l’altra, ho capito che la famiglia, la storia, la religione e la cultura condizionano il nostro modo di pensare; tuttavia non ne siamo quasi mai consapevoli. Dobbiamo liberarci delle divisioni presenti nelle società e nella collettività, confini nei quali troppo spesso veniamo rinchiusi e in cui talvolta ci rinchiudiamo noi stessi.
Questo bisogno di capire non è mai venuto meno.
Il mio interesse per il problema del razzismo, per la sua storia e la sua evoluzione, mi ha portato a letture, incontri e riflessioni che toccano molteplici discipline, come ad esempio la paleoantropologia con Yves Coppens. Tutto questo mi ha fatto crescere e continua a farmi crescere, sia da un punto di vista intellettuale, sia nelle azioni che porto avanti attraverso la mia Fondazione in favore dell’educazione contro il razzismo.
Le domande sono fondamentali per cambiare i nostri immaginari. Quali sono, oggi, i nostri immaginari? Come si sono costruiti? Dove ci porteranno? Quali sono i nostri timori, le angosce che vivono in noi? I politici hanno una grande responsabilità a riguardo, soprattutto quando alimentano le paure della gente, dei popoli o della collettività. Quando in televisione sento parlare della delinquenza dei rom e sottolineare che «tutti devono sapere che in Francia il 2% della delinquenza riguarda i romeni, e che quasi la metà dei malviventi è minorenne»,2 vorrei conoscerne le ragioni, vorrei che di quella delinquenza mi venissero spiegate le cause.
Facendo discorsi del genere, sventolando cifre e statistiche, non si finisce forse, ancora una volta, per stigmatizzare un’intera comunità senza cercare di comprendere la sua natura, quali siano le sue condizioni di vita, di lavoro, di integrazione? Qual è il vissuto quotidiano di quei ragazzi e dei loro genitori? E perché alimentare la paura, istigare alla diffidenza? In quale prospettiva? Da chi è costituito il restante 98%? Da delinquenti che vengono dalla Bretagna, dalla Borgogna, dalle Antille?
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Di solito in una società, come in una famiglia, ci si aspetta che le persone incaricate di decidere siano le più assennate e giudiziose. Essere responsabili di una società non significa prima di ogni altra cosa prendere in considerazione tutti i suoi componenti, tutta la sua pluralità?
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Ognuno deve trovare il proprio posto all’interno della collettività. La Francia, al pari di molti altri Paesi, è sempre stata una società multiculturale, come rivelano le diversità religiose o le differenze linguistiche regionali profondamente marcate. Basti pensare alla Bretagna, all’Alsazia, alle Cévennes o alla Corsica. La pluralità ha fondato e alimentato nel tempo la nostra società, tutte le società. Perché allora continuare a ridurre e associare sistematicamente il multiculturalismo ai problemi di colore della pelle o di religione? Per quanto mi riguarda, la mia cultura proviene sia dalle Antille (per nascita), sia dalla Francia. Quando sono arrivato nella periferia di Parigi mi sono immerso in un incrocio di culture e lingue, e in seguito, grazie alle squadre di calcio in cui ho giocato, mi sono impregnato della cultura provenzale, emiliana, piemontese e catalana.
L’identità è qualcosa di immutabile? Non è forse vero che si costruisce nel tempo? Non è forse multipla e sempre in divenire? Non cambia in base al luogo, al contesto familiare, sociale, professionale, e all’insegnamento che si riceve, agli incontri e alle letture che si fanno?
I discorsi relativi a una «purezza dell’identità» sono molto pericolosi, perché derivano direttamente da una presunta «purezza della razza». Da cinque secoli a questa parte, la nostra cultura si è intrisa e costruita sulla superiorità della «razza bianca» sulle presunte «razze inferiori». Eppure, negli anni Cinquanta, i genetisti hanno rimesso in discussione i fondamenti di questa nozione, attestando l’unicità della specie umana. Oggi la stigmatizzazione legata al colore della pelle veicola ancora quell’idea di inferiorità e genera esclusioni, emarginazioni, conflitti.
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Perché continuiamo a pensare che esistano culture superiori ad altre? Perché ci ostiniamo a chiudere l’altro in una delle componenti della sua identità, definendolo «nero», «bianco», «musulmano», «ebreo», «omosessuale», «donna»?
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Per desiderio o volontà di dominarlo, di ridurlo a un’entità trascurabile, se non addirittura spregevole?
«La storia non è altro che una serie di dominazioni orchestrate da una minoranza a svantaggio di una vasta maggioranza», scrive l’artista Bruce Clarke nel suo Dominations.3 E continua: «In ogni epoca e in ogni periodo storico, [c’erano] alibi o giustificazioni, accompagnati da un gran numero di testi, immagini e discorsi ufficiali per presentare la nuova dominazione come annunciatrice di un “ordine nuovo” che deriva da un “ordine naturale”. […] Il razzismo, le teorie che trattano della superiorità delle “razze”, i dubbi riguardo all’umanità di alcuni popoli hanno rappresentato per secoli la giustificazione e l’alibi della schiavitù. Delle “mistificazioni fondatrici”, potremmo dire.»
Per aspirare all’uguaglianza è fondamentale che ogni generazione ripensi il proprio immaginario e lotti contro le ingiustizie. Ci sono uomini e donne che si sono battuti contro la schiavitù, l’asservimento, il colonialismo, il fascismo, il nazismo, l’apartheid, e affinché le società occidentali avessero una visione diversa delle donne e dei loro diritti. La giustizia è una conquista, non una concessione. Oggi tocca a noi riprendere in mano la fiaccola, per rendere la società più giusta. Per citare Albert Einstein: «Il mondo è un posto pericoloso in cui vivere, non a causa di coloro che fanno del male, ma di quelli che stanno a guardare e lasciano che accada».

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