Quando vivevo a
Barcellona frequentavo spessissimo il Centre de Cultura
Contemporània, dove seguivo con interesse mostre, congressi e
dibattiti. Dopo aver assistito a un intervento di Tzvetan Todorov
decisi di incontrarlo e di leggere i suoi saggi, tra cui Memoria del
male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico,1 che
annovero tra i miei testi di riferimento. L’analisi critica di
quanto ci ha lasciato il Novecento e la riflessione sulla necessità
di ricordare che questo secolo ci ha imposto mi sembrano
fondamentali. La storia, il passato, sono spesso semplificati, e
talvolta notizie false vengono veicolate al servizio di motivazioni
oscure che Todorov porta alla luce per analizzarne le ragioni, le
conseguenze e le complicazioni. L’umiltà e la calma di Tzvetan
Todorov ci portano ad ascoltarlo rapiti mentre ci racconta il mondo,
per quanto oscuro e terribile sia.
La pluralità umana è
un dato irriducibile di ogni società. Ma questa pluralità assume
forme diverse a seconda dell’aspetto della nostra esistenza che si
decide di esaminare: fisico, culturale o politico.
Partiamo dalla
pluralità fisica: da tempo i biologi hanno messo in discussione il
concetto di razza umana, dimostrando che le differenze fisiche
esistenti non permettono di definire gruppi umani unici e omogenei.
Inoltre i popoli si sono mescolati da tempo immemore. Il colore della
pelle, in base al quale le persone di solito identificano le «razze»,
dipende semplicemente dall’esposizione di centinaia di migliaia di
generazioni ai raggi solari. E malgrado gli sforzi delle persone
razziste, nessuno ha mai potuto dimostrare che alle differenze
fisiche corrispondano necessariamente differenze mentali. L’assenza
di fondamento scientifico non ci impedisce tuttavia di continuare a
parlare di «bianchi», «neri» e «asiatici». Continuiamo con le
classificazioni, e le differenze fisiche ci forniscono la strada più
semplice per teorizzarle.
Il riflesso della
classificazione fisica
Se le razze sono una
fantasticheria, i pregiudizi a esse collegati sopravvivono e sono
diffusi in ogni società. Oggi tendiamo a pensare al razzismo dei
«bianchi», ma in realtà è una tendenza universale.
Pensiamo al Discorso
sul colonialismo, nel quale Aimé Césaire critica aspramente – e a
ragione – i pregiudizi verso i neri. Diventa più difficile seguire
il suo ragionamento quando, parlando dei Paesi colonizzati, afferma:
«Erano società fondamentalmente democratiche», o quando, evocando
i popoli africani, dichiara: «Faccio sistematicamente l’apologia
delle nostre antiche civiltà negre: erano civiltà cortesi», come
se la qualità del comportamento dipendesse dal colore della pelle.
Lo stesso accade per ciò che ha affermato nel 1986 il grande
scrittore nigeriano Wole Soyinka quando, ritirando il premio Nobel
per la letteratura, disse che le società africane «non si sono mai
abbandonate alla guerra in nome della religione. La razza nera non ha
mai cercato di assoggettare o di convertire gli altri con la forza,
spinta da uno zelo evangelizzatore fondato sulla convinzione di
detenere la verità suprema». Sfortunatamente, tutte le società
umane hanno dato vita a guerre in nome del potere, con o senza un
pretesto religioso. Tutte hanno attaccato le società più deboli.
Certo, quel genere di discorso può avere un’utilità effimera, può
creare un mito – come quello della Francia resistente, inventato da
De Gaulle all’indomani della seconda guerra mondiale perché il
Paese ritrovasse la propria identità –, ma non corrisponde alla
verità storica.
Negli anni del primo
dopoguerra lo scrittore Romain Gary reagisce con grande acume a un
problema simile. Non vuole che solo il razzismo dei nazisti venga
stigmatizzato, dimenticando che l’esercito americano e, più in
generale, gli Stati Uniti erano caratterizzati da una legislazione e
da pratiche razziste. Fino all’inizio delle lotte per i diritti
civili degli anni Sessanta, i neri erano fortemente discriminati. Ma
quelle azioni non sono una prerogativa dei bianchi; Gary scrive: «I
generali con la pelle nera o gialla, dentro i blindati, nei loro
palazzi o dietro le mitragliatrici, per tanto tempo hanno seguito la
lezione dei padroni. Dal Congo al Vietnam, praticavano i riti più
oscuri dei popoli civilizzati: assoggettare, torturare e opprimere in
nome della libertà, del progresso e della fede».2 Per fare un
esempio più vicino a noi, in tanti ci siamo rallegrati della
vittoria di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Ma le sue
origini afroamericane non hanno modificato in maniera sostanziale le
decisioni che ha preso: in Afghanistan ha portato avanti la stessa
politica imperiale che il suo Paese aveva sempre condotto e ha reso
comune la pratica dell’assassinio mirato dei nemici degli Stati
Uniti…
La polifonia di ogni
società
La seconda pluralità è
di natura culturale, e le sue conseguenze sono ben più definite di
quelle delle differenze fisiche.
La cultura è un
insieme di regole di vita proprie di un determinato gruppo umano.
Avere una cultura fa parte della natura dell’uomo. Il bambino non
nasce in un contesto indistinto, ma in una famiglia e una società
che saranno responsabili di gran parte delle sue caratteristiche. La
più evidente è che entrerà a far parte dell’umanità parlando
una determinata lingua, e le lingue influenzano il nostro modo di
percepire e pensare il mondo. Ma la differenza di lingua non è certo
l’unica: persino una società monolingue non è perfettamente
omogenea.
La parola «cultura»
non corrisponde soltanto a origini o a lingue diverse, o a modi
diversi di vestirsi e di mangiare, ma a tutto ciò che appartiene al
codice comune di un gruppo e lo distingue dagli altri. Anche
all’interno della stessa società, i giovani e i vecchi non si
comportano allo stesso modo, benché s’intendano al volo perché la
loro condizione è simile. Non ci si aspetta che uomini e donne si
conformino agli stessi modelli di comportamento: gli uomini
rivendicano la virilità, a differenza delle donne, che privilegiano
la tenerezza. I maschi provano persino vergogna nel mostrarsi troppo
sensibili, o nel piangere. «Sii uomo, figlio mio», si dice. Neanche
i ricchi e i poveri condividono la stessa cultura, e nemmeno le
persone istruite e quelle illetterate. Ogni società è un coro di
voci, c’è sempre un’interazione, un compromesso, una
negoziazione tra culture diverse. Non esiste una società monocorde.
Inizialmente i gruppi
umani, come forse tutte le specie animali, almeno per un certo
periodo di tempo hanno diffidato degli estranei. Ma ben presto si
sono resi conto che quella diffidenza aveva anche conseguenze
negative, e hanno cercato di rimediare, inventando ciò che gli
antropologi chiamano esogamia: un’usanza secondo cui ci si sposa
con membri di tribù o di clan diversi, circostanza che permette di
evitare i conflitti con i gruppi vicini.
È solo in seguito, con
la nascita degli Stati, che ci si è resi conto che la mescolanza tra
popolazioni e l’apertura agli altri aveva effetti positivi.
All’epoca l’Europa era abitata da popolazioni estremamente
diverse le une dalle altre a causa delle condizioni geografiche del
continente.
Le popolazioni hanno
cominciato a incontrarsi e frequentarsi, a prosperare grazie a quegli
incontri. Dopo essere stata a lungo fonte di conflitti sanguinosi, un
giorno quella varietà è diventata motivo di progresso, un’apertura
all’altro. Successivamente le popolazioni europee hanno avuto la
possibilità di assorbire le influenze provenienti dall’Egitto,
dalla Mesopotamia, dal mondo arabo, dall’Africa nera e dall’Estremo
Oriente. L’Europa è diventata così un crocevia, un luogo
caratterizzato dalla pluralità di culture. Probabilmente questa è
una delle ragioni per cui in futuro sarebbe riuscita a conquistare il
resto del mondo!
Un Paese ha tutto da
guadagnare dalla varietà culturale: come dimostra la storia, quando
uno Stato cerca di isolarsi, si condanna alla stagnazione. Pensiamo
alla Cina: all’inizio del XV secolo la dinastia Ming decise di
interrompere i contatti con l’esterno, di distruggere gli orologi
astronomici, di bruciare le mappe geografiche del resto del mondo e
di smettere di costruire navi che consentissero viaggi in luoghi
lontani. L’imperatore era convinto di agire per il bene del Paese,
ma in quel modo ne ostacolò il progresso tecnologico e lo sviluppo
politico e culturale. Per secoli la Cina è stata in balìa degli
attacchi delle potenze straniere. È soltanto da una ventina d’anni
che la sua apertura al mondo rimedia in modo efficace al ritardo
accumulato in tanti settori.
In tempi più recenti
la pluralità delle culture è stata evocata nel dibattito sul
multiculturalismo. Molti capi di governo europei si sono dichiarati
ostili a questo fenomeno.
In Germania,
nell’ottobre del 2010 Angela Merkel ha dichiarato che il
«Multikulti» era un fallimento, e il primo ministro britannico
David Cameron ha affermato lo stesso concetto. Anche l’allora
presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy si è dichiarato
pienamente d’accordo, asserendo che il multiculturalismo «è
all’origine di molti dei problemi della nostra società». Eppure
al mondo non esistono – né sono mai esistite – società composte
esclusivamente da persone appartenenti alla stessa cultura.
Affermare di essere
contro la pluralità culturale equivale a dire che si è contro
l’umanità, a meno che non si intenda la parola in senso diverso,
non sociologico ma politico, come scelta deliberata di agire in
funzione della separazione delle culture, di organizzare la società
in modo che si creino gruppi distinti. Paesi come la Gran Bretagna o
gli Stati Uniti avevano effettivamente fatto una scelta simile, ma
poi hanno cambiato idea, mentre nell’Europa continentale politiche
simili non sono mai state praticate con regolarità. È vero tuttavia
che, accanto a questa pluralità inevitabile, ogni società deve
favorire l’esistenza di elementi comuni. Esiste un codice culturale
che facilita la partecipazione di tutti alla vita collettiva.
Padroneggiare la lingua, saper interpretare un comportamento,
conoscere gli elementi fondamentali della storia del Paese, la sua
geografia e le leggi principali sono condizioni necessarie alla vita
sociale. Se non si conosce questo contesto comune, ci si sente
esclusi dalla società in cui si vive.
Quando sostengo che
bisogna conoscere un po’ di storia non intendo dire che si deve
glorificare la propria patria, né ridurre il passato a una storia di
vincitori e vinti, di buoni e cattivi. Tedeschi e francesi hanno
cercato di scrivere un manuale comune di storia del XX secolo,
tenendo conto dei punti di vista dell’uno e dell’altro. Questa
giustapposizione narrata in modo semplice e ponderato è importante,
ma ci sono molti altri momenti storici che meriterebbero di essere
chiariti da un confronto simile. Pensiamo alla guerra d’Algeria o,
per fare un esempio meno recente, alle guerre di conquista
napoleoniche, che i Paesi invasi interpretano in modo completamente
diverso rispetto alla Francia. Gli spagnoli hanno assistito per
cinque anni al massacro della popolazione per mano dell’esercito di
Napoleone; sarebbe utile per i giovani francesi (di ogni origine)
familiarizzare con quel punto di vista complementare.
Non è mai facile porsi
queste domande, perché la reazione immediata consiste
nell’identificarsi con la comunità, con la fratria,3 con il gruppo
cui si sente di appartenere. Tutti tendiamo a comportarci così:
vediamo spontaneamente il male negli altri, non in noi stessi, e
facciamo fatica a concedere delle attenuanti, a metterci al loro
posto. Eppure è importante non escludere se stessi da ciò che si
denuncia.
Voglio ricordare
l’esempio di Germaine Tillion, storica ed etnologa. Quando lasciò
il campo di Ravensbrück, dov’era stata deportata, era pronta ad
attribuire quella catastrofe alla nazionalità del carnefice,
indignata da ciò che aveva vissuto: i tedeschi erano dei mostri!
All’indomani della guerra molti erano convinti che tutti i tedeschi
fossero nazisti. Ma quando Germaine Tillion divenne una storica, a
poco a poco si rese conto che quei comportamenti deplorevoli non
erano specificamente tedeschi. Nel 1954, nella guerra d’Algeria,
scoprì le pratiche di tortura adottate da alcuni ufficiali
dell’esercito francese, figli della Liberazione ed ex eroi della
Resistenza. Proprio coloro che avevano lottato per la democrazia,
contro la violenza e l’oppressione, reprimevano senza pietà la
rivolta algerina. Ecco una lezione di storia che la nostra educazione
comune dovrebbe avere il coraggio di insegnare a tutti.
Il pluralismo politico
La terza forma di
pluralità, il pluralismo politico, è quella che oppone nel modo più
evidente la democrazia al totalitarismo. Si manifesta con la
separazione del potere esecutivo, legislativo e giudiziario, ma anche
economico e mediatico. Tuttavia bisogna restare vigili anche quando
c’è democrazia, perché la tendenza all’unificazione tipica dei
regimi totalitari è tuttora tangibile. Il pluralismo politico
richiede un impegno quotidiano. Per constatarlo è sufficiente
ricordare i diversi casi giudiziari in cui il potere ha tentato di
aggirare le regole della giustizia, mentre l’indipendenza di
quest’ultima è uno dei pilastri della democrazia. O ancora, vedere
in che modo il potere economico cerca di assoggettare quello
politico. Una confusione dei poteri in un’unica oligarchia
ostacolerebbe invece l’autonomia del potere politico, l’unico ad
avere una legittimità democratica.
Il pluralismo è
necessario anche nelle relazioni internazionali. L’egemonia dei
colossi occidentali (Stati Uniti ed Europa) è potenzialmente
pericolosa per la facilità con cui questi Paesi finiscono per
credersi l’incarnazione del bene, arrogandosi il diritto di
intervenire militarmente in qualunque Stato, con conseguenze
imprevedibili. L’intervento americano in Iraq, giustificato con la
supposta presenza di armi di distruzione di massa – che si è
rivelata un’invenzione –, ha causato la morte di un numero di
persone stimato tra cinquecentomila e un milione. Vivere in un mondo
multipolare, fatto di schieramenti regionali che fanno da contrappeso
alla tentazione egemonica di un unico Paese, è preferibile, tuttavia
non rappresenta un rimedio universale. Il potere crescente di Stati
come il Brasile, l’India o il Sudafrica va in quella direzione. Ma
quando si diventa i più forti non è facile accettare che la
pluralità valga più dell’unità!
1 Garzanti, Milano 2004
[N.d.T.].
2 Les mangeurs
d’étoiles, Gallimard, Parigi 2013.
3 Nell’antica Grecia,
entità sociale comprendente gruppi familiari discendenti da un
capostipite comune, con un proprio culto, un sacerdote e un capo
annuale [N.d.T.].
Le domande :
- Quali sono le forme della pluralità esaminate da Todorov ?
La pluralità umana è un dato irriducibile di ogni società. Ma questa pluralità assume forme diverse a seconda dell’aspetto della nostra esistenza che si decide di esaminare: fisico, culturale o politico. - Come
è stato messo in discussione il concetto di razza umana ?
(individuare tre fatti) ?
Da tempo i biologi hanno messo in discussione il concetto di razza umana, dimostrando che le differenze fisiche esistenti non permettono di definire gruppi umani unici e omogenei. Inoltre i popoli si sono mescolati da tempo immemore. Il colore della pelle, in base al quale le persone di solito identificano le «razze», dipende semplicemente dall’esposizione di centinaia di migliaia di generazioni ai raggi solari. E malgrado gli sforzi delle persone razziste, nessuno ha mai potuto dimostrare che alle differenze fisiche corrispondano necessariamente differenze mentali. - Che cosa significa
l’espressione il razzismo è "una tendenza universale" ?
(inserisci due esempi nella tua spiegazione)
Sfortunatamente, tutte le società umane hanno dato vita a guerre in nome del potere, con o senza un pretesto religioso. Tutte hanno attaccato le società più deboli. (...) Non vuole che solo il razzismo dei nazisti venga stigmatizzato, dimenticando che l’esercito americano e, più in generale, gli Stati Uniti erano caratterizzati da una legislazione e da pratiche razziste. Gary scrive: «I generali con la pelle nera o gialla, dentro i blindati, nei loro palazzi o dietro le mitragliatrici, per tanto tempo hanno seguito la lezione dei padroni. Dal Congo al Vietnam, praticavano i riti più oscuri dei popoli civilizzati: assoggettare, torturare e opprimere in nome della libertà, del progresso e della fede». - Individua e
trascrivi la definizione che T. dà di "cultura"
La cultura è un insieme di regole di vita proprie di un determinato gruppo umano. Avere una cultura fa parte della natura dell’uomo. Cultura è ciò che produce l'uomo e non è natura. - Che cosa significa "Non esiste una società monocorde"?
Ogni società è un coro di voci, c’è sempre un’interazione, un compromesso, una negoziazione tra culture diverse.
- Che cos’è
l’esogamia ? Perché è stata importante nella storia
dell’uomo ?
Gli uomini si sono resi conto che la diffidenza aveva anche conseguenze negative, e hanno cercato di rimediare, inventando ciò che gli antropologi chiamano esogamia: un’usanza secondo cui ci si sposa con membri di tribù o di clan diversi, circostanza che permette di evitare i conflitti con i gruppi vicini. - Incontrarsi, frequentarsi è un vantaggio o
uno svantaggio ? Spiega perché ? Che cosa è successo alla
Cina ?
Le popolazioni hanno cominciato a incontrarsi e frequentarsi, a prosperare grazie a quegli incontri. Dopo essere stata a lungo fonte di conflitti sanguinosi, un giorno quella varietà è diventata motivo di progresso, un’apertura all’altro. (...)L’Europa è diventata così un crocevia, un luogo caratterizzato dalla pluralità di culture. Probabilmente questa è una delle ragioni per cui in futuro sarebbe riuscita a conquistare il resto del mondo! - Quali capi di stato hanno espresso un giudizio
negativo sul multiculturalismo ? Che cosa risponde T. a
questi giudizi.
Angela Merkel, David Cameron, Nicolas Sarkozy . Eppure al mondo non esistono – né sono mai esistite – società composte esclusivamente da persone appartenenti alla stessa cultura. - Che cosa deve favorire
la società accanto alla pluralità culturale? Quali
sono secondo T. gli elementi fondamentali per sentirsi parte della
società in cui si vive ?
È vero tuttavia che, accanto a questa pluralità inevitabile, ogni società deve favorire l’esistenza di elementi comuni. Esiste un codice culturale che facilita la partecipazione di tutti alla vita collettiva. Padroneggiare la lingua, saper interpretare un comportamento, conoscere gli elementi fondamentali della storia del Paese, la sua geografia e le leggi principali sono condizioni necessarie alla vita sociale. Se non si conosce questo contesto comune, ci si sente esclusi dalla società in cui si vive. - Perché è importante conoscere
la propria storia secondo T. ?
Perché la storia ci fa conoscere i nostri errori e ci impedisce di giudicare gli altri pensando di essere migliori di tutti. "Tutti tendiamo a comportarci così: vediamo spontaneamente il male negli altri, non in noi stessi, e facciamo fatica a concedere delle attenuanti, a metterci al loro posto. Eppure è importante non escludere se stessi da ciò che si denuncia." - Spiega che cosa significa
che la pluralità politica è quella che oppone nel modo più
evidente la democrazia al totalitarismo.
La terza forma di pluralità, il pluralismo politico, è quella che oppone nel modo più evidente la democrazia al totalitarismo. Si manifesta con la separazione del potere esecutivo, legislativo e giudiziario, ma anche economico e mediatico. Se non ci fosse pluralità politica vivremmo sotto una dittatura.
-
Perché il pluralismo
politico richiede un impegno quotidiano ?
Tuttavia bisogna restare vigili anche quando c’è democrazia, perché la tendenza all’unificazione tipica dei regimi totalitari è tuttora tangibile. Il pluralismo politico richiede un impegno quotidiano. Per constatarlo è sufficiente ricordare i diversi casi giudiziari in cui il potere ha tentato di aggirare le regole della giustizia, mentre l’indipendenza di quest’ultima è uno dei pilastri della democrazia. O ancora, vedere in che modo il potere economico cerca di assoggettare quello politico. Una confusione dei poteri in un’unica oligarchia ostacolerebbe invece l’autonomia del potere politico, l’unico ad avere una legittimità democratica.
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