11 settembre 2013

Una rivolta dei plebei Livio, Ab urbe condita, II, 23

23 Mentre la guerra coi Volsci era alle porte, a Roma infuriava lo scontro intestino tra le classi: patrizi e plebei si trovavano ai ferri corti e la causa prima era rappresentata dagli schiavi per debiti. Questi i termini della loro protesta: mentre prestavano servizio militare attivo per lo Stato, in patria erano oppressi e fatti schiavi; i plebei si sentivano più sicuri in guerra che in pace, più liberi tra i nemici che tra i concittadini. Il malcontento si stava già spontaneamente diffondendo, quando un episodio sconcertante fece traboccare il vaso. Un uomo già piuttosto attempato e segnato dalle molte sofferenze irruppe nel foro. Era vestito di stracci lerci. Fisicamente stava ancora peggio: pallido e smunto come un cadavere e con barba e capelli incolti che gli davano un'aria selvaggia. Benché sfigurato, la gente lo riconosceva: correva voce che fosse stato un ufficiale superiore e quelli che lo commiseravano gli attribuivano anche altri onori militari; lui stesso, a riprova della sua onesta militanza in varie battaglie, mostrava le ferite riportate in pieno petto. Quando gli chiesero come mai fosse così mal ridotto e sfigurato - nel frattempo l'assembramento di gente aveva assunto le proporzioni di un'assemblea - egli rispose che, durante la sua militanza nella guerra sabina, i nemici non si eran limitati a razziargli il raccolto, ma gli avevano anche incendiato la fattoria e portato via il bestiame; poi, nel pieno del suo rovescio, erano arrivate le tasse e si era così coperto di debiti. Il resto lo avevan fatto gli interessi da pagare sui debiti contratti: aveva prima perso il podere appartenuto a suo padre e a suo nonno, quindi il resto dei beni e infine, espandendosi al corpo come un'infezione, il suo creditore lo aveva costretto non alla schiavitù, ma alla prigione e alla camera di tortura. Dicendo questo, mostrò agli astanti la schiena orrendamente segnata da ferite recenti. Tale vista, unita a quanto appena sentito, fu salutata da un coro di voci sgomente e da un'agitazione collettiva che non si limitò soltanto al foro ma si espanse a macchia d'olio in tutti i quartieri della città. I debitori, sia quelli già fatti schiavi sia quelli ancora liberi, sciamano da ogni parte per le strade, implorano la protezione dei Quiriti e in ogni angolo trovano volontari pronti a unirsi a loro. Da ogni parte, urlando, si corre a gruppi verso il foro. Fu un bel rischio per quei senatori che, trovandosi casualmente in zona, finirono nel pieno della mischia. E la situazione non sarebbe tornata sotto controllo, se i consoli Publio Servilio e Appio Claudio non fossero intervenuti a sedare la sommossa. I dimostranti si girarono allora verso di loro e cominciarono a mostrare catene e altre orrende mutilazioni, gridando che quella era la ricompensa alle campagne cui ciascuno di essi aveva preso parte nel tale e nel talaltro paese. Reclamarono, con un tono che aveva più della minaccia che della supplica, la convocazione del senato e circondarono la curia per controllare e regolare di persona le deliberazioni ufficiali. I consoli misero insieme giusto quei pochi senatori che casualmente erano lì intorno. Gli altri erano terrorizzati all'idea non solo di entrare nella curia, ma anche nel foro, e il senato non poteva fare nulla per l'insufficienza numerica dei presenti. Allora i dimostranti cominciarono a credere che li stessero prendendo in giro e cercassero di guadagnare tempo: pensavano che l'assenza dei senatori non fosse dovuta al puro caso o al panico, ma a una precisa volontà ostruzionistica, ed erano certi, vedendo che i senatori menavano il can per l'aia, che ci si stesse prendendo gioco della loro miseranda condizione. Quando ormai sembrava che anche l'autorità consolare non avesse più alcun potere coercitivo su quella massa di gente imbestialita, ecco che finalmente arrivarono quei senatori rosi dal dubbio se si rischiasse di più standosene al coperto o comparendo in senato. Raggiunto così il numero legale dei presenti, né i senatori né tantomeno i consoli riuscivano a mettersi d'accordo su una soluzione possibile. Appio, che aveva un carattere impulsivo, era dell'opinione di risolvere la cosa con l'impiego dell'autorità consolare: con un paio di arresti, gli altri si sarebbero calmati. Servilio, invece, più incline ad adottare misure di compromesso, era dell'opinione che fosse più sicuro, oltre che più semplice, assecondare la rabbia dei dimostranti piuttosto che ricorrere alla repressione.

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