Sara Colognese
Alberto Fiorentino
Elia Liotta
Claudia Paparella
Questo racconto è stato elaborato a partire dal documentario "Come un Uomo sulla Terra".
Ormai è una settimana che sono in prigione, il caldo soffocante ha iniziato a formare delle piaghe sulla pelle, non mangio dal giorno in cui sono qui e una bottiglia d’acqua ogni 24 ore non basta più per dissetarmi. Se durante il giorno il caldo è il mio peggior nemico, la notte la nostalgia di casa mi dà il tormento. È da 72 ore che non chiudo occhio, ma fortunatamente ho conosciuto un ragazzo che mi tiene compagnia quando i miei pensieri iniziano ad assillarmi. Lui, come me, è stato arrestato dalla polizia durante il suo viaggio. Mi ha raccontato la sua storia:
Alberto Fiorentino
Elia Liotta
Claudia Paparella
Questo racconto è stato elaborato a partire dal documentario "Come un Uomo sulla Terra".
Ormai è una settimana che sono in prigione, il caldo soffocante ha iniziato a formare delle piaghe sulla pelle, non mangio dal giorno in cui sono qui e una bottiglia d’acqua ogni 24 ore non basta più per dissetarmi. Se durante il giorno il caldo è il mio peggior nemico, la notte la nostalgia di casa mi dà il tormento. È da 72 ore che non chiudo occhio, ma fortunatamente ho conosciuto un ragazzo che mi tiene compagnia quando i miei pensieri iniziano ad assillarmi. Lui, come me, è stato arrestato dalla polizia durante il suo viaggio. Mi ha raccontato la sua storia:
Dakarai è un giovane eritreo che, dopo
la perdita dei suoi genitori, uccisi nello scontro del 2000 tra
l’esercito etiope ed eritreo per la città di Badme, ha deciso di
andarsene dall’Eritrea con sua zia in cerca di fortuna. Come è
successo a me, la jeep su cui si trovava è stata intercettata dalla
polizia libica ed è stato portato qui.
Le molte analogie tra le nostre storie
hanno formato una sorta di fratellanza tra di noi.
Oggi è stata una giornata dura: io e
Dakarai siamo stati spostati in un'altra cella insieme ad altre
persone. Lì ci hanno picchiato con bastoni e fruste fino allo
sfinimento. Probabilmente qualcuno è morto, ma non lo possiamo
sapere con certezza perché siamo stati immediatamente portati fuori,
al freddo della notte libica. Dopo due ore siamo stati caricati di
nuovo sulle jeep e abbandonati nel mezzo del deserto con altri
migranti, con i quali riuscivamo a comunicare parlando in inglese.
Eravamo tutti spaventati e non sapevamo dove andare. Ma uno di loro,
Malik, conosceva molto bene l'astrologia e sapeva che doveva seguire
la stella polare per riuscire a giungere alla costa tunisina. Adesso
ci stiamo riposando in un'oasi incontrata lungo il cammino e stiamo
mangiando quello che la natura ci offre.
Il tempo sta passando in fretta,
secondo Malik siamo quasi arrivati alla costa. Dakarai è debole e
sente dolori dappertutto: le contusioni rimediate la notte della
nostra “partenza” si fanno ancora sentire, e il mio compito è
quello di sostenerlo nel cammino. Adesso cominciamo a vedere le luci
del porto. Arrivati lì Dakarai comincia a parlare con un uomo,
probabilmente italiano, che ci fa cenno di salire sulla sua barca.
Eravamo salvi.
Adesso siamo in mezzo al mare. Intorno
a noi c'è solo la distesa azzurra, profondissima. Mi vengono alla
mente i racconti dei migranti, che parlavano di uomini morti proprio
in questo mare per rincorrere la libertà mai trovata. Dakarai
finalmente si è ripreso, ma le gambe non lo reggono in piedi e ha
dolori ad ogni movimento.
L' acqua sulla barca è finita, ma la
visione della costa italiana ci rifocilla come nessuna bevanda poteva
fare. Improvvisamente, il nostro traghettatore sale su un gommone
che ci stava girando intorno da tempo. Immediatamente le grida di
disperazione dei nostri compagni si alzano in cerca di aiuto. La
barca oscilla sempre di più mano a mano che il buio avanza. Arrivati
a notte inoltrata, la barca si inclina e alcuni di noi cadono in
mare. Capiamo che l' unica soluzione di salvezza è quella di nuotare
fino a riva. Prendo in braccio Dakarai, che mi grida qualcosa, ma non
riesco a capire nulla a causa del frastuono delle onde. L' acqua
freddissima mi fa rabbrividire , e finalmente percepisco le parole di
Dakarai: “non riesco a nuotare”.
Subito la paura mi assale, con le forze
che mi rimangono cerco di portare il mio amico con me. Ma dopo
qualche minuto, non ce la faccio più. Dakarai mi dice di lasciarlo,
nonostante le mie proteste. Lui si divincola e mi spinge, non vuole
che io lo segua nel suo triste destino. Mi rivolge un ultimo sorriso,
e poi non lo vedo più.
Adesso vivo in una casa di accoglienza
con altri migranti dove sto imparando l' italiano.
Devo la mia salvezza ad un peschereccio
e al suo proprietario, che ha avuto il coraggio di affrontare il mare
solo per salvarci. Ci ha portato a riva e ha aspettato finché non
sono arrivati i soccorsi. Dopo un rapido controllo dell'identità
ci hanno spostati verso diversi centri di accoglienza. Una volta svanita la paura, la mia mente si è rivolta verso Dakarai.
Penso sempre a lui, e mi sento
estremamente fortunato. Ma purtroppo il destino non ha voluto che le
nostre sorti fossero simili.
Il suo ricordo rimarrà sempre nella
mia mente e nel mio cuore.
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